Da Scalfari a Bocca, da Moro a Fanfani. Ecco i loro imbarazzanti articoli
di Roberto Festorazzi da Il Giornale del 26 agosto 2018
A ottant’anni dal varo delle leggi antisemite in Italia, proviamo a offrire un breve repertorio del pensiero di insospettabili apologeti e teoreti del razzismo.
Il diciottenne Eugenio Scalfari, su Roma Fascista, il 24 settembre 1942, alla vigilia di un grande raduno a Venezia delle rappresentanze giovanili di Italia, Germania e Giappone, scrisse: «Il convegno di Venezia ha un significato essenzialmente politico; esso riunisce le forze migliori del Tripartito, quelle che sono depositarie e garanti dell’avvenire delle tre nazioni, quelle cui spetterà il compito gigantesco dell’Impero». Un fattore nuovo della storia del mondo, l’Impero, che il futuro fondatore della Repubblica descriveva come «tenuto insieme da un fattore principale e necessario: la volontà di potenza quale elemento di costruzione sociale; la razza quale elemento etnico, sintesi di motivi etici e biologici che determina la superiorità storica dello Stato nucleo e giustifica la sua dichiarata volontà di potenza».
E il giornalista Giorgio Bocca, sulla Provincia Grande – Sentinella d’Italia, foglio della Federazione fascista di Cuneo, il 14 agosto 1942, così si esprimeva: «Questo odio degli ebrei contro il fascismo è la causa prima della guerra attuale. La vittoria degli avversari solo in apparenza, infatti, sarebbe una vittoria degli anglosassoni e della Russia; in realtà sarebbe una vittoria degli ebrei. A quale ariano, fascista o non fascista, può sorridere l’idea di dovere in un tempo non lontano essere lo schiavo degli ebrei? È certo una buona arma di propaganda presentare gli ebrei come un popolo di esseri ripugnanti o di avari strozzini, ma alle persone intelligenti è sufficiente presentarli come un popolo intelligente, astuto, tenace, deciso a giungere, con qualunque mezzo, al dominio del mondo. Sarà chiara a tutti, anche se ormai i non convinti sono pochi, la necessità ineluttabile di questa guerra, intesa come una ribellione dell’Europa ariana al tentativo ebraico di porla in stato di schiavitù».
Da parte sua, il giovane Giovanni Spadolini, sulla rivista fiorentina Italia e Civiltà del 15 febbraio 1944, denunciava la crisi progressiva del fascismo, iniziata nel 1936, «sicché esso perse a poco a poco il suo dinamismo rivoluzionario. Si cristallizzò in un partito borioso e pletorico, proprio mentre riaffioravano i rimasugli della massoneria, i rottami del liberalismo, i detriti del giudaismo».
In ambito cattolico, non furono rare le teste d’uovo che professarono idee razziste. Il ventitreenne Giulio Andreotti, sul numero di ottobre-novembre 1942 della Rivista del Lavoro, edita dalla Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, riferiva del Congresso della Società italiana per il progresso delle scienze. Riassumendo la relazione del filosofo del diritto Widar Cesarini Sforza, su «Stato e individuo nell’ordine politico e sociale moderno», il Divo Giulio affermava: «La società viene così concepita come un tutto, un corpo omogeneo, di cui lo Stato costituisce l’organizzazione giuridica trovando nelle finalità supreme della nazione o della razza la giustificazione perentoria della propria autorità, quella giustificazione che è viceversa impossibile trarre dalla società, quando questa è concepita, liberisticamente, come molteplicità di fini e di voleri. Poiché dunque l’autorità, e quindi la giustificazione dell’autorità, ossia di un volere superiore ai voleri individuali, non può essere ricavata da questi ultimi, gli Stati totalitari la ricavano dall’entificazione della società come un tutto, il che permette di dare un ordine unitario alla molteplicità dei voleri e dei fini particolari, e fornisce un criterio di valore assoluto per risolvere i problemi della convivenza sociale».
Significativo il contributo che Aldo Moro forniva all’elaborazione del concetto giuridico di razza, da lui definita «l’elemento biologico che, creando particolari affinità, condiziona l’individuazione del settore particolare dell’esperienza sociale, che è il primo elemento discriminativo della particolarità dello Stato». Nel 1943, il leader democristiano poi rapito e ucciso dalle Brigate Rosse qualificava la guerra come una «tipica realizzazione di giustizia», e aggiungeva: «In definitiva l’anima più profonda della guerra, il suo significato vero, il suo valore, sono in questo suo immancabile protendersi verso l’armonia dei popoli che essa, nella forma provvisoria della lotta, dà opera a costruire. Per questo la guerra può essere grandissima e umanissima cosa; per il suo immancabile anelito verso l’unità e la giustizia, per il suo accettare ogni prova, e quella suprema del sangue, perché la giustizia sia, talché proprio nella guerra della verità universale si afferma il supremo valore, se proprio per realizzarla gli Stati, e cioè gli uomini che sono gli Stati, accettano tutte le prove e tutti i dolori».
Amintore Fanfani, più volte segretario della Dc e primo ministro, in un suo libro del 1941, illustrava «il problema della difesa della Razza come necessità biologica e come fatto spirituale di fronte all’urgente necessità di distruggere quel fenomeno dell’ebraizzazione che dall’unità d’Italia in poi dilagò in tutti i campi della cultura, della economia, della politica».
E mentre la futura medaglia d’oro della Resistenza Paolo Emilio Taviani redigeva uno studio intitolato Come il nazionalsocialismo risolve il problema classista, un altro partigiano bianco, Benigno Zaccagnini, segretario dello Scudocrociato dal 1975 all’80, l’11 febbraio 1939 firmava, sull’organo del Gruppo universitario fascista di Ravenna, un articolo contro il meticciato. L’onesto Zac definiva la razza come «un termine intermedio e di legame tra l’individuo e la specie, ossia fra due termini opposti di ordine massimamente particolare l’uno e di ordine sommamente unitario e generale l’altro; intendendo la specie, nel suo significato biologico, come la somma di tutti gli individui capaci di dar fra loro incroci fecondi». Ne derivava una dura condanna della mescolanza tra etnie, considerata «un tentativo di rompere l’equilibrio nella direzione di una eccessiva dilatazione dei confini razziali». Zaccagnini aggiungeva: «I pericoli e i danni del meticciato sono innanzitutto di ordine genetico», e si manifestano nella «comparsa di figli notevolmente disarmonici e portatori di più o meno gravi squilibri genetici». Infine: «Il meticcio, per il suo carattere intermedio fra le razze d’origine, viene da entrambi i genitori riguardato in genere come qualcosa di estraneo e finisce per crescere fuori da ogni ambiente come un reietto o un rifiuto per tutti. Ciò si risolve da un lato in un grandissimo rallentamento di ogni vincolo familiare e dall’altro in un’assoluta mancanza di educazione morale e intellettuale di questi infelici, non solo, ma in una continua eccitazione dei loro più bassi istinti (odio, vendetta, furto) da parte di un ambiente universalmente ostile».
Scioccante il giudizio di entusiastica approvazione espressa da un giovanissimo Carlo Lizzani, futuro regista comunista, riguardo a Süss l’ebreo («film ottimamente riuscito»), di Veit Harlan, concentrato di puro veleno ideologico. Si tratta, infatti, della tristemente celebre pellicola del Terzo Reich, voluta dal ministro della Propaganda, Joseph Goebbels, ed eretta a simbolo del razzismo di quel regime, tanto da incitare all’assassinio in nome della purezza etnica.
Il critico cinematografico Morando Morandini, nel 1942, su Gioventù Lariana, foglio della Gil (Gioventù italiana del littorio), si dichiarò a favore dell’eugenetica, allo scopo di «salvaguardare e migliorare sul piano biologico, qualitativo, estetico la fisionomia del popolo italiano, risanando ambienti e individui, potenziando i caratteri ereditari validi, cercando di modificare o di eliminare quelli tarati o patologici per ricondurre ad una unità e individualità organica le caratteristiche etniche e morali della Nazione e per restituire alla razza la totale responsabilità storica del suo destino».