di Francesca Bonazzoli dal “Corriere della Sera” del 25 dicembre 2021
È sempre andata così: per costruire la sua celebre cupola, Firenze ha avuto bisogno della complicità fra Brunelleschi e la potente corporazione dell’Arte della Lana; nemmeno la cappella Sistina sarebbe stata quella che è se l’indole di Michelangelo non fosse stata forzata dalle smisurate ambizioni di Giulio II, Clemente VII e Paolo III.
E per dar vita alle delizie della Farnesina ci voleva l’incontro fra due supremi bons vivants: Agostino Chigi e Raffaello. Anche per Vicenza, la sorella minore di Padova e Verona, per non dire di Venezia o Mantova, c’è voluta la sintonia fra l’oscuro figlio di un facchino di cereali e un ceto industriale e mercantile diventato nel Cinquecento ricco, intraprendente e colto. In un reciproco vantaggioso scambio di gloria fra Palladio e i Trissino, i Thiene, i Chiericati, Vicenza ebbe così la sua Basilica, il teatro Olimpico, un gran numero di palazzi cittadini e residenze di campagna.
Non è un caso se il trattato che ebbe immenso successo «I quattro libri dell’architettura» (1570) è una celebrazione di Vicenza non solo attraverso le illustrazioni della Basilica e dei tanti palazzi e ville progettati, ma anche un elogio dei suoi cittadini illustri elencati per nome. Palladio lo confessa esplicitamente: «Io sarò tenuto molto avventurato, avendo ritrovato gentiluomini di così nobile e generoso animo et eccelente giudizio c’abbiano creduto alle mie ragioni e si siano partiti da quella invecchiata usanza di fabbricare senza grazia e senza bellezza alcuna».
La chiave del linguaggio armonico fu per Palladio l’antico. A plasmare la sua mente verso questa inclinazione era stato un uomo dell’aristocrazia di Vicenza: Giovan Giorgio Trissino (1478-1550), un erudito con la passione per il greco antico, l’architettura e la missione di migliorare il mondo. Trovò il suo pupillo ideale nel povero ma intelligentissimo Andrea di Pietro della Gondola, il figlio di un trasportatore di cereali di Padova.
Trissino ne diventò la guida e l’educatore facendosi accompagnare in una serie di viaggi a Roma. Gli impose anche il nome, greco, ovviamente: Palladio, da Pallade Atena, la dea della civiltà, protettrice delle scienze e delle arti. Il ragazzo orfano di madre (registrata solo come «la zoppa»), a 13 anni era stato messo dal padre nella bottega dello scalpellino Bartolomeo Cavazza da Sossano che lo sottoponeva a tali angherie da indurlo a tentare la fuga e finalmente riuscire a conquistare la vicina città di Vicenza a 16 anni.
Quel piccolo ignorante dalle mani rovinate e le unghie spezzate provò come forse nessun altro ammirazione e rispetto per le antichità del passato e come gli antichi, sentì altissimo il valore civile dell’architettura. Quel ragazzo che parlava solo dialetto e faceva la fame, riusciva a cogliere nelle rovine di Roma un significato etico, il senso della civiltà e del buon governo.
Trissino lo introdusse nell’aristocrazia vicentina dopo averlo probabilmente visto lavorare, intorno al 1537, nella bottega di Pedemuro dove disponeva di un misero pagliericcio e dove rimase fino al matrimonio, nel 1534, con Allegradonna, la figlia di un carpentiere che gli darà cinque bambini. Fino ai 32 anni vivrà nell’ombra, faticando a mantenere la numerosa famiglia al punto che fu costretto a presentare domanda di ammissione del proprio primogenito al collegio per giovani indigenti di Padova.
Ma dopo il secondo viaggio a Roma col Trissino, Andrea ottenne una clamorosa vittoria con il progetto per la risistemazione della Basilica. Finalmente arrivò la celebrità. Prima a Vicenza; poi, dagli anni ’60, anche nel palcoscenico di Venezia. Ma fu Vicenza, città fino ad allora nota per le faide e le vendette, a vivere la metamorfosi in farfalla assieme al misero figlio del facchino. Insieme fecero volare il nome del Palladio in tutto il mondo, fino alla bianca cupola di Capitol Hill.