HomeRinascimentoAndrea Doria, ammiraglio sempre leale all'imperatore Carlo V

Andrea Doria, ammiraglio sempre leale all’imperatore Carlo V

Nella storia (in particolare quella della nostra penisola) le alleanze durature che resistono alla sorpresa degli eventi sono talmente rare che quella trentennale tra Andrea Doria e Carlo V è oggetto di meraviglia e di studio. Siamo a tal punto assuefatti al tradimento degli accordi — anche nel giorno per giorno della politica — che l’«eccezione doriana» ci appare come un caso pressoché unico. Ludovico Ariosto, quando, ai primi del Cinquecento, scrisse l’ Orlando Furioso, depositò nel XV canto una considerazione assai particolare nei confronti del principe Andrea Doria (nato a Oneglia nel 1466, morto a Genova, in quella che definiva la sua «patria», nel 1560): «Questo è quel Doria che fa dai pirati/ sicuro il vostro mar per tutti i lati». Avere come alleato Andrea Doria, aveva ben compreso l’Ariosto, significava a quei tempi essere padrone dei mari. Ma non solo. Il poeta (che sarebbe morto nel 1533) aveva dedicato altri versi a descrivere quanto sarebbe stata importante l’alleanza (nata nel 1528 e destinata a durare ininterrotta per trent’anni) tra l’imperatore (dal 1519) Carlo V e il grande navigatore ligure. Ed è sui versi ariosteschi scritti quando quell’alleanza era solo agli inizi che si è soffermata Gabriella Airaldi nell’avvincente biografia Andrea Doria, che sta per essere pubblicata da Salerno.

di Paolo Mieli dal Corriere della Sera del 12/05/2015 

Ariosto, scrive la Airaldi, individua come Andrea appartenga «a una élite europea che, diversamente dalle altre, non porta in sé solo i caratteri dell’aristocrazia fondiaria, i quali pure — come dimostrano le vicende della casa Doria — restano la radice della sua ragion d’essere». Andrea «appartiene all’aristocrazia consolare che dal Mille è al vertice di un Comune e… combatte per due sistemi politici alternativi ma complementari». Anzi da prima del Mille: la genealogia attesta che i «de Auria» (questo il nome corretto della famiglia, che poi cambierà in «d’Oria» negli annali della Repubblica di Genova citando un documento del 1134) «sono presenti sul palcoscenico della storia più di un secolo prima che nascesse il Comune e cioè fin dal 900, quando Genova, cuore di relazioni internazionali pacifiche e guerresche e città vivace di presenze forestiere, già godeva di riconoscimenti regi». Risale al 1125 il primo segno della potenza della famiglia Doria, che in quell’anno fonda la sua chiesa gentilizia.

La fortuna dei Doria sarà legata a quella dei liguri a Roma dal 1471, quando sarà elevato al soglio pontificio Francesco della Rovere, che prenderà il nome di Sisto IV. Saranno i Papi liguri a dare il via a una grande rivoluzione urbanistica, che cambierà il volto di Roma. Prima il genovese Giovanni Battista Cybo, con il nome di Innocenzo VIII (in carica dal 1484 al 1492), poi Giuliano della Rovere, con il nome Giulio II (1503-1513). Andrea Doria vivrà nella città del Pontefice tra il 1488 e il 1492. Sono anni — questi e quelli che seguiranno — in cui «il nepotismo pontificio, la vendita delle indulgenze e degli uffici provocherà le critiche di Erasmo da Rotterdam e scatenerà Martin Lutero». Ma ora «nello splendore romano si aggirano Mantegna, Pinturicchio, Raffaello, Michelangelo, Benvenuto Cellini».

Andrea «non è un uomo d’affari né uno dei tanti capitani di ventura che girano il mondo con i loro mercenari; è un cavaliere, un “artista della guerra”; risponde perciò in tutto e per tutto all’antico canone europeo». Andrea Doria, prosegue l’autrice, «è uno degli uomini più potenti della sua epoca; come tale deve difendere la sua potenza e conservarne i segni; ma non è ricco; d’altronde lui preferisce la potenza alla ricchezza e recita la sua parte come Carlo recita la propria; per questo il principe (dal 1531 sarà insignito del titolo di principe di Melfi) passa la maggior parte del tempo con le sue armi, sulla sua galera; un mondo particolare, a modo suo solidale, dove però la convivenza obbligata rende la vita grama a tutti».

Nel 1515, Francesco I sale sul trono di Francia. L’anno successivo Andrea è alla guida della spedizione contro i corsari barbareschi voluta dal Papa e da Francesco. Nel gennaio del 1516, a sedici anni, Carlo d’Asburgo diventa re di Spagna. Tre anni dopo, nel giugno del 1519, un consorzio di banchieri, sborsando una cifra astronomica, in quello che è stato definito «il più grande poker politico della storia», gli consente di «superare l’antagonista Francesco I e di assumere su di sé la corona imperiale». Tra i due inizia un grande duello. Carlo V vuole il controllo della penisola italiana. Per conquistarlo ha bisogno di Genova, di Milano e di Roma. Per avere un vantaggio sull’avversario, instaura una politica coerente antiluterana e antiturca. Fa saccheggiare la «francese» Genova. Tenta di spaccare l’asse tra Francesco e Milano. Mette a sacco Roma, nel 1527, per ridurre a ragione l’anti-imperiale Clemente VII (Giulio de’ Medici). Alla fine la sua politica e i suoi eserciti l’avranno vinta; ma ciò non sarebbe avvenuto, sostiene Gabriella Airaldi, «senza l’aiuto del più importante guerriero di mare del tempo, senza le galee e senza i capitali genovesi». È lo spostamento a suo favore di Andrea Doria che decide la partita.

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Nel suo Carlo V (Salerno), Alfred Kohler ha scritto che all’epoca «in campo militare Carlo aveva all’inizio poca esperienza». La sua familiarità con le armi si era per lungo tempo «limitata ai tornei». Di fatto, Carlo dovette attendere fino ai 34 anni per sperimentare di persona la guerra, davanti a Tunisi. Fino ad allora era rimasto «un teorico che, guidato dai suoi militari, si occupava di questioni particolari relative alla guerra, come le fortificazioni — un interesse che gli derivava da suo nonno Massimiliano — o il problema dei rifornimenti, soprattutto dopo l’esperienza negativa fatta dal suo esercito in Provenza nel 1524». Nelle questioni militari si affidò da giovane al viceré di Napoli Charles de Lannoy, più tardi a René de Chalon, principe d’Orange e ad Andrea Doria, che risvegliò in lui l’interesse per la guerra navale.
C’è qualcosa di simile nelle vicende di Carlo V e di Andrea Doria, mette in rilievo Gabriella Airaldi sulla scia del fondamentale Carlo V e il suo impero (Einaudi) di Federico Chabod: «Fin dal momento in cui i loro destini si sono incrociati, l’intesa tra i due è stata forte ed è proseguita con un’intensità slegata dalla pura occasionalità». Il loro carteggio è «fitto». L’imperatore e il principe sono due individui che vivono «esperienze estreme». Le loro vite si assomigliano. Tutta la loro esistenza è «tinta dei colori del sangue»; il loro «colloquio con la morte è costante e nessuno dei due la teme». Per Andrea «la solitudine», dice ancora l’Airaldi, «è stata fin dalla gioventù una scelta di vita». Per Carlo «una condizione sine qua non che alla fine ha assunto i contorni di una soluzione esistenziale, quando il suo grande impero ha preso i confini di una piccola casa vicino a un monastero», dove tra il 1556 e il 1558 trascorse i suoi ultimi due anni di vita. Ma «gli spazi sono ristretti anche per il capitano Doria», che all’ultimo trascorre tutto il tempo che gli rimane nel suo bel palazzo. Individui al vertice di situazioni complesse, insiste Airaldi, Carlo e Andrea «sono e restano due uomini soli». La rinuncia a ogni potere terreno, la decisione di vivere con servitù ridotta in una dimora semplice e il testamento politico di Carlo non si possono leggere senza riandare alla stanza in cui Andrea si ritira a pensare «per longo spatio»; alle ultime volontà che il principe detta appena un mese prima della scomparsa dell’imperatore; ai codicilli che le completano; alla genealogia in cui delinea le fondamenta della sua storia familiare; alla cura che, fin dagli anni Quaranta, mette nel predisporre la propria sepoltura nell’antica chiesa gentilizia.

Ma torniamo al 1528, l’anno nel quale Andrea Doria «lascia» Francesco I per unirsi a Carlo V in un rapporto indissolubile che durerà ben tre decenni. Senza l’inaspettato cambiamento della situazione determinato, nel luglio 1528, dal passaggio di Andrea Doria dalla parte di Carlo V, sostiene Kohler, l’Orange non avrebbe probabilmente potuto far fronte al blocco navale imposto fino a quel momento dalle galere del nipote di Doria, Filippino; questi ritirò allora, finalmente, le sue navi. In seguito, la situazione dell’esercito francese davanti a Napoli peggiorò visibilmente e, dopo la morte inaspettata del generale Foix Odet visconte di Lautrec, avvenuta in agosto, i francesi interruppero l’assedio della città. L’allontanamento del Doria dal re di Francia, prosegue Kohler, non avvenne improvvisamente, come perlopiù si afferma, e non era nemmeno motivata esclusivamente dagli attriti con il comando supremo francese per il bottino conquistato in occasione della vittoria navale di Amalfi (28 aprile 1528), ottenuta da Filippino Doria contro la flotta spagnola. Già il 1° luglio di quello stesso 1528, Andrea Doria aveva concordato con l’imperatore una condotta di due anni e quell’accordo venne ratificato il 10 agosto a Madrid.

Nella conquista di Andrea Doria alla causa dell’imperatore svolse probabilmente un ruolo di mediatore il cancelliere di Carlo V, Mercurino Arborio di Gattinara, che nel 1527 aveva soggiornato per un mese a Genova (anche se nell’autobiografia il Gattinara spiegava la propria sosta dicendo di aver avuto un attacco di gotta). La flotta genovese, mette in rilievo Kohler, assicurò all’imperatore per gli anni successivi il controllo del mare in tutto il Mediterraneo occidentale e il sostegno nella lotta contro Chaireddin Barbarossa; Genova poté beneficiare non solo dello scambio di merci fra Italia e Spagna, in particolare del commercio di cereali con la Sicilia, ma ottenne nuovamente l’ancor più importante collegamento con lo spazio economico della Spagna e dei Paesi Bassi e la possibilità di concludere affari finanziari con l’imperatore. In Italia settentrionale la situazione era inizialmente sfavorevole agli imperiali. Il duca Enrico il Giovane di Braunschweig-Wolfenbuettel non riuscì a ottenere con le proprie truppe alcun successo. Da parte francese, invece sotto il comando del Borbone-Vendome Francesco II, conte di Saint-Pol, si presentò un esercito di diecimila soldati che contese ad Antonio de Leyva la Lombardia. In questa situazione fu vantaggioso che, grazie ad Andrea Doria, «il porto di Genova fosse nuovamente aperto all’esercito imperiale, cosa che era di importanza determinante per far giungere in Italia settentrionale i rifornimenti». Progressivamente «migliorarono anche le condizioni per il viaggio in Italia dell’imperatore, anche se la guerra continuava». Punto di forza dell’alleanza tra Carlo V e Andrea Doria, scrive la Airaldi, è che mai l’alleanza di Genova con la Spagna e con l’Impero si sarebbe trasformata in sottomissione». Mai «sarebbe venuto meno il sistema repubblicano su cui essa si basava e di cui si sarebbe gloriata in ogni tempo». Con il passaggio di Andrea Doria dalla parte dell’imperatore, scrive Kohler, i banchieri genovesi si trovarono al servizio di Carlo: Genova divenne, accanto ad Anversa, la piazza finanziaria più importante dell’impero, e fu lì che Suarez de Figueroa concluse alcune tra le sue più importanti operazioni di credito. Ma — prima ancora dei vantaggi economici — è la personalità di Andrea che segna quell’epoca. «Guerriero di vaglia sulla terra e sul mare», scrive Gabriella Airaldi, «il principe è un uomo colto; ha vissuto nel palazzo paterno di Oneglia, nel castello materno di Dolceacqua, nel quartiere genovese di San Matteo, e fin dalla giovinezza ha soggiornato in molte corti, a Roma, a Urbino, a Parigi, a Madrid». «Amico di principi, cardinali e pontefici, si circonda di intellettuali e artisti; proviene da un milieu le cui origini si perdono nel tempo, un consesso di ammiragli e condottieri, politici, diplomatici, uomini d’affari e uomini di Chiesa che spesso sono anche raffinati intellettuali». La loro influenza gli darà la forza per affrontare numerose congiure. Quella di Cesare Fregoso e degli altri giustiziati nel 1534; quella del prete Valerio Zuccarello, decapitato nel 1539; quella (assai più importante) di Gianluigi Fieschi, stroncata nel 1547. Quest’ultima, con la terribile vendetta che ne seguì, «segna una tappa importante non solo nella storia locale ma anche in quella internazionale». Ciò che accadde, infatti, aprì la via «al definitivo successo spagnolo, ed è forse per questo che la congiura dei Fieschi è una tragedia che, al di là della sua valenza nella storia del principe, si fissò subito nella memoria di tutti diventando fonte di ispirazione per gli intellettuali di ogni tempo, dai contemporanei a Rousseau, a Schiller, al Guerrazzi».

Andrea è uno dei pochi italiani ante litteram che tengono fede alla parola data, alle alleanze stipulate, e ne è compensato con successi talvolta insperati. Vivrà a lungo, più di novant’anni, e vedrà succedersi più generazioni. Avrà 51 anni quando Lutero proporrà le 95 tesi; 63 quando Solimano giungerà sotto le mura di Vienna; 79 quando si aprirà il Concilio di Trento; 93 al momento del trattato di Cateau Cambrésis. «In quasi cent’anni di vita», scrive Airaldi, «il mondo gli è cambiato sotto gli occhi». Parenti e amici sono tutti più giovani e gli è difficile scegliere un successore. «Al suo erede occorre un apprendistato serio e complesso che si può compiere solo con lui… Tra la gente che gli è vicina circolano due nomi importanti, quello di Filippino, che però muore trent’anni prima di lui, e quello di Antonio, più giovane di lui di trent’anni e che morirà diciassette anni dopo di lui, con il quale però le relazioni sono pessime». In altre parole, Andrea Doria non avrà eredi alla sua altezza. E tutto il patrimonio politico che avrà accumulato, dopo la sua morte andrà gradualmente dissolvendosi. Un ultimo dettaglio: Oneglia, la città dove è nato, resterà nel suo cuore finché vivrà. Il 20 giugno 1538, il principe vi condurrà Carlo V e il papa Paolo III in viaggio da Nizza a Genova. Promuoverà l’istituzione di una gabella «perché vi siano sempre un medico e un maestro di scuola». Nel 1576, sedici anni dopo la sua scomparsa, Oneglia sarà venduta ai Savoia. Segno che l’«eccezione doriana» sparirà con l’uomo che l’aveva impersonata. E i patti torneranno ad essere violati, traditi, ribaltati come da tradizione.

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