di Giampaolo Romanato, da Avvenire del 21 gennaio 2025
Aldo G. Ricci, autore dei trentadue saggi che compongono Elogio della storia. L’Italia nella guerra civile europea 1914-1953 (Oaks Editrice, 452 pagine, 28 euro), è stato per molti anni al vertice delle nostre istituzioni archivistiche, ha tenuto corsi universitari e ha pubblicato volumi importanti sugli ultimi due secoli di storia italiana, sempre accompagnando la perizia dell’esperto con una esemplare sobrietà di scrittura. Questo per dire che conosce come pochi le fonti, la bibliografia e i problemi che sono alla base del vorticoso quarantennio qui preso in considerazione. Quarant’anni possono apparire poca cosa, ma nel periodo che intercorre tra il 1914, anno di inizio del primo conflitto mondiale, e il 1953, quando ebbero termine i governi presieduti da Alcide De Gasperi, che morirà poco dopo – esattamente quattro decenni – l’Italia visse una radicale trasformazione, passando dall’arretratezza alla modernità e transitando attraverso tre guerre (oltre ai due conflitti mondiali ci fu anche la nostra penosa avventura in Etiopia), la dittatura fascista, una sanguinosa guerra civile, la liquidazione della monarchia e il passaggio alla repubblica.
Chi fosse nato alla fine dell’Ottocento, nel 1953 non aveva ancora sessant’anni, ma aveva visto più storia di tutte le generazioni che l’avevano preceduto. Era venuto al mondo in un
paese miserabile e analfabeta e stava per vivere la sua vecchiaia in una delle più solide potenze mondiali. Ricci si cala in questo periodo non soltanto con mano esperta ma anche con totale libertà interpretativa. Valga per tutti l’impietoso giudizio con il quale liquida la memoria del Partito comunista italiano, che ne fu magna pars. Scrive: a cento anni dalla sua nascita «ci si può domandare ormai a mente fredda: il Pci ha fatto anche qualcosa di buono? La risposta è decisamente no». Egli sa benissimo che dentro la storia del Pci ci sono «entusiasmi, passioni, dolori, delusioni, lotte di milioni di persone», che meritano rispetto (anche perché in anni lontani egli stesso ne fu partecipe), ma questo non attenua il clamoroso fallimento di quei sogni, e con essi dell’uomo che ne fu la massima sintesi nel nostro paese, Palmiro Togliatti, sul quale scrive pagine giustamente severe.
Tuttavia il nodo centrale di quel quarantennio rimane il fascismo, o meglio, l’endiadi fascismo-antifascismo: la sua origine, la sua fine, la sua perdurante eredità. Ricci segue molti fili interpretativi: lo strappo istituzionale con cui gli interventisti portarono il Paese in guerra nel 1915; gli errori dei socialisti che nel dopoguerra continuarono a pasticciare tra riforme e rivoluzione non sapendo fare né le une né l’altra e andarono incontro a una rovinosa sconfitta; la debolezza del mondo liberale, che non seppe mai trapiantarsi nella civiltà di massa prodotta dalla guerra e si consegnò senza combattere a Mussolini; l’ipoteca che la rivoluzione russa e poi l’Unione Sovietica posero sempre sul mondo comunista internazionale, impedendo che nascesse nel nostro Paese una sinistra credibile, libera da obbedienze esterne. Senza dimenticare l’estremismo mussoliniano, la sua totale estraneità ai valori liberali, che costituirono l’essenza del regime e che alla fine lo condussero all’autodissoluzione, non senza avere però trasmesso alla società italiana una carica di radicalismo e contrapposizione che sono rimaste a lungo nelle sue fibre, e forse ci sono ancora, come osserva Ernesto Galli della Loggia nella prefazione.
Il periodo più tragico di quel quarantennio è quello che va dall’8 settembre 1943 alla fine di aprile del 1945, quando l’Italia fu a un passo dalla dissoluzione: malamente uscita da una guerra ormai perduta, disprezzata da tutti, divisa in due stati, con due eserciti stranieri che la occupavano, una guerra civile in corso, nessuna vera autorità nazionale. A quei drammatici venti mesi Ricci dedica uno dei capitoli più penetranti del suo lavoro e ricorda che a garantire la continuità della nazione, traghettandola verso la rinascita, fu un elemento anonimo, silenzioso, del tutto insospettabile: la pubblica amministrazione, statale e locale. «Un’amministrazione – scrive – che opera, al Sud come al Nord, con le stesse leggi, con gli stessi regolamenti, con uomini formati alla medesima scuola e con un unico stile di governo. Sono questi uomini in grigio che assicurano il razionamento, il controllo della produzione, un minimo di assistenza, un qualche ordine pubblico, il pagamento degli stipendi».
Solo uno storico proveniente dalla pubblica amministrazione e non dall’Accademia, come è appunto Ricci, poteva avere una tale intuizione. E aggiunge: «Nel dramma della divisione della Nazione, la doppia continuità statale al Nord e al Sud, o la continuità divisa di quei venti mesi, costituì un’ancora cui aggrapparsi, prima separatamente, poi di nuovo unitariamente, nel Paese allo sbando. Un tessuto connettivo minimo che consentì anche, al termine del conflitto, di procedere sulla strada del ritorno alla normalità. Questo tessuto connettivo comune e omogeneo, nonostante le divisioni, non fu quindi la causa di un presunto “mancato rinnovamento” del Paese, dai termini assai fumosi, ma fu più concretamente una delle poche pur fragili basi da cui muovere nel successivo cammino verso la ricostruzione». Con buona pace di tutta la storiografia che ha sempre imputato proprio alla continuità, cioè alla mancata epurazione, i limiti dell’Italia postbellica.Della ricostruzione (morale e politica, prima ancora che materiale) si fece carico Alcide De Gasperi, al quale Ricci dedica l’ultimo conclusivo capitolo del suo libro. E lo statista trentino è l’unico protagonista di quel convulso quarantennio del quale scrive un’incondizionata e appassionata difesa. Il solo, fra i tanti protagonisti di questo libro, che esce completamente assolto.