Parlare di chi non c’è più (solo su questa Terra ovviamente…) dovrebbe essere normale per chi si occupa di Storia. Ma se ad essersi “assentato momentaneamente” è un amico e un maestro le cose ci complicano parecchio. Pochi giorni fa ci ha lasciato Luciano Garibaldi, classe 1936, molto più che un grande amico per tutta “Storia In Rete” e per me personalmente. A “Storia In Rete” Luciano non si è “limitato” (si fa per dire) a collaborare assiduamente con la sua puntualissima e seguitissima rubrica delle lettere: credo non abbia mai saltato un solo numero in 19 anni. E poi i tanti articoli e i consigli che arrivavano per mail e per telefono, sempre accompagnati da un sorriso, da una battuta, da un incoraggiamento. Ma Luciano, ancora prima che il primo numero del giornale andasse in edicola aveva fatto tantissimo per il nostro giornale, spendendosi personalmente per trovare le risorse per partire e mettendo al servizio del progetto il suo prestigio personale, che non era e non è davvero poca cosa.
A questo punto potrei cavarmela seguendo le orme di chi mi ha preceduto, negli ultimi giorni, nel ricordarlo. Per lo più lo si è fatto elencando i suoi tanti libri (almeno una quarantina) e suoi grandi successi come giornalista e cronista d’assalto. Tutto vero e tutto giusto. Ma una regoletta del giornalismo che Luciano aveva ben in mente dice anche che bisogna a provare a dare quel qualcosa in più, guardare un po’ più in la, dire quello gli altri non hanno ancora detto. E ciò che mi piacerebbe venisse fuori, almeno da questo angolino che lui ha amato davvero (chiedendosi e chiedendomi cosa fare per tornare in edicola e cosa poteva fare lui…), è l’uomo Luciano Garibaldi e la sua straordinaria generosità. Una carica vitale che negli anni si è tramutata in ritmi di lavoro e di vita che avrebbero stroncato chiunque. Lui invece ha vissuto a ritmi degni di un Vasco Rossi: se c’era da far l’alba per un’inchiesta si faceva l’alba, se c’era da bere si beveva, se c’era da fumare o guidare per centinaia di chilometri si fumava e si guidava, se c’era da incalzare un testimone o un protagonista di un fatto, di cronaca o storico, lo si incalzava fino allo sfinimento. E se c’era il rischio che qualcuno avesse brutte intenzioni – e c’era, specie nella Genova degli anni Settanta e del terrorismo – si prendeva la più ovvia delle contromisure. Una bella pistola da tenere in evidenza quando non si era in redazione. Un concetto di deterrenza che Luciano declinò da par suo: da bravo cronista aveva saputo che i terroristi e i loro fiancheggiatori si addestravano in un certo poligono della provincia e lui cosa fece? Si iscrisse proprio a quello stesso poligono e lo frequentò il più possibile per far sapere a tutti non solo che era armato ma che all’occorrenza sapeva sparare anche bene. Funzionò: quella pistola non la dovette mai usare fuori dal poligono e continuò con i suoi articoli che facevano incazzare tutta la sinistra istituzionale, culturale ed extraparlamentare.
Perché se c’è una cosa bella dell’uomo Luciano Garibaldi è che “non le ha mai mandate a dire”, come si dice. Chi era e cosa pensava l’ha sempre messo in chiaro, nettamente, senza paura di dare scandalo o di incorrere in qualche censura, in qualche ostracismo. Cose facilissime da subire – e che arrivarono regolarmente – in anni, come i Settanta e gli Ottanta, dove l’anticomunismo era una colpa imperdonabile. E se una cosa Luciano è stato – da liberale, da cattolico, da patriota, da monarchico – è stato essere un radicale anticomunista. Le sue inchieste sul caso Calabresi e le violenze degli extraparlamentari di sinistra hanno fissato per sempre alcune verità che a lungo sono dispiaciute ai benpensanti. L’amico Pierluigi Romeo di Colloredo Mels ha ricordato una bella frase di Luciano Garibaldi che vale la pena di riproporre: “Il comunismo era l’antinazione, la personificazione dell’asservimento ad una potenza straniera e sopraffattrice della libertà, il ricordo di una intollerabile violenza fratricida. In noi, diciottenni e ventenni di allora, giocava pesantemente l’eco recentissima dell’ondata sanguinosa che aveva travolto il Paese all’indomani della guerra civile”.
In un mondo diviso in due, Luciano ha tenuto la sua rotta indipendente e coerente: amico di fascisti e post fascisti ma strenuo difensore della Resistenza non comunista, quella degli Edgardo Sogno o del Comandante Bisagno; cittadino della Repubblica ma con un cuore che batteva per la Monarchia, più un concetto che una Dinastia vista la sua passione per le vittime della Rivoluzione francese, quei vandeani a cui ha dedicato tante pagine; uomo del suo tempo, vitale ma con un occhio attento, fin da ragazzo, alla dimensione dello spirito e alla religione. In pochi – forse nessuno… – hanno ricordato che uno dei suoi ultimi libri è stato su Fatima. Cronista e giornalista di razza, attento alla politica ma capace di mille curiosità e divagazioni su e giù per la Storia anche se, certo, il periodo fascista l’ha occupato a lungo e i tanti misteri legati alla fine del Fascismo e di Mussolini gli hanno dato modo di mettere in pratica le sue indubbie doti di inchiestista, capace di seguire con tenacia una pista in tempi in cui le scorciatoie che offre oggi internet non erano neanche immaginabili.
Ma anche in campi dove si muoveva giustamente da protagonista era capace di aperture e generosità non comuni. E qui parlo per esperienza personale perché la nostra amicizia nacque con una telefonata inattesa fatta da un affermato giornalista ad un giovane neanche trentenne, appena sbarcato alla scuola di giornalismo di Milano, forte di tante speranze e di un libro appena pubblicato che andava a metter bocca, in modo eterodosso e un po’ presuntuosetto, sui fatti di Dongo e dintorni. Mi invitava nella sua trasmissione su Antenna 3 Lombardia (all’epoca tra le maggiori emittenti private del Nord Italia) a parlare proprio di cose che lui conosceva meglio di me e da ben prima di me. Fu lui a introdurmi in redazioni prestigiose, a recensire ogni mio libro, a rispondere ad ogni appello: per un convegno, per un articolo, per un consiglio, per un’intervista in un documentario. Ed era così bravo ed efficace che una volta in una trasmissione di prima serata dovettero “limare” i suoi interventi nel documentario in cui l’avevo coinvolto perché rischiava di far ombra al conduttore… Poi venne la lunga stagione della rivista “Storia In Rete” che l’ha visto, come s’è detto, protagonista fin dalla gestazione. Restano centinaia di mail e di messaggi a testimoniare che per tanti anni – davvero tanti anni… – è bastato girarsi per sapere che Lucianone era ancora lì, sempre lì, non solo disponibile ma anche capace di preziose, tenerissime e sobrie affettuosità. Ora che “Storia In Rete” sta pensando a riprendere il cammino tutto questo mancherà terribilmente. Chissà se per colmare il vuoto sarà sufficiente non guardare più indietro ma alzare, ogni tanto, gli occhi verso il cielo.