C’è uno spettro che si aggira per l’Italia, ed è il melodramma postumo. Ciò che sta dimostrando questa prima stagione del centenario della Grande Guerra è la preoccupante tendenza di giornalisti, registi e divulgatori di varia natura a ragionare del passato seguendo più le regole del romanzo rosa che quelle del metodo storico, con il rischio di scivolare in un generico lamento sulla tragedia inspiegabile, voluta da una demoniaca congrega capi di stato maniaci e generali spietati. Così, il conflitto che ha generato il mondo in cui viviamo viene presentato secondo stereotipi manichei degni di un film di serie C (tutti buoni e tutti vittime tranne pochi cattivoni), con tanti saluti al rigore filologico e alla distanza critica che dovrebbero informare la narrazione del passato.
di Novello Monelli da Mente Politica del 16.12.2014
Che nessuno (salvo i cattivoni di cui sopra) volesse la guerra e credesse nella sua necessità è, naturalmente, un grottesco anacronismo. Che una buona parte dei combattenti, soprattutto tra i veterani che avevano vissuto l’orrore della prima linea, abbia poi passato la vita a rimpiangere quella scelta, è un altro. Il fatto è che a buona parte dei cosiddetti divulgatori è estranea la capacità di guardare all’evento guerra in modo complesso. Ad esempio, prendendo in considerazione lo sguardo dei contemporanei, quella generazione 1914 (o 1915) che sulla guerra, sulle sue ragioni e sui suoi significati, così come sulla possibilità del sacrificio di sé in nome del dovere della cittadinanza, ragionava in termini decisamente lontani da noi.
Sarà per questo nella maggior parte dei paesi europei è agli storici che è stato affidato il ruolo principale nel racconto istituzionale del Centenario. Un protagonismo che tende quantomeno a ridurre il cumulo di sciocchezze in circolazione. All’interno della Mission du centenaire francese sono stati gli storici accademici a gestire ad esempio il delicato capitolo dei combattenti fucilati. Hanno ripreso in mano i documenti, riesaminato i fascicoli di oltre mille poilus giustiziati durante la guerra e alla fine hanno dedicato loro uno spazio all’interno del museo dell’Armée, reinserendoli nel circuito della memoria collettiva senza pudori né clamori. In Italia, ex procuratori e parlamentari in cerca di facile celebrità reclamano a gran voce una «riabilitazione collettiva» dei 750 soldati fucilati tra 1915 e 1918 dopo un regolare processo (dei forse 200 giustiziati sommariamente purtroppo si può dire ben poco). Forse farebbero bene a porsi prima alcune domande di metodo. Riabilitazione di chi, per dirne una? Anche dei condannati per aver brutalizzato civili inermi nelle zone di guerra? E a quale fine poi?
La storia o le storie?
Ma questo è solo un esempio della superficialità con cui viene trattato lo snodo del 1914-18. Da un lato, il format narrativo più in voga sembra essere quello della vicenda personale, un po’ drammatica e un po’ patetica, che attragga la lacrima facile del pubblico. E’ il plot adottato, per esempio, da Aldo Cazzullo in La guerra dei nostri nonni, un volume in cui non è proposta la storia della guerra ma un susseguirsi di storie, bozzetti biografici di «uomini comuni». Al lettore viene chiesto di immedesimarsi e di simpatizzare: un procedimento ormai consueto (il celebrato La bellezza e l’orrore di Englund si basa sullo stesso principio) e di grande efficacia, perché non richiede alcuno sforzo intellettuale. Cazzullo è un brillante divulgatore e fa il proprio mestiere. Suo compito non è spiegare la complessità, ma rivolgersi a lettori mediamente poco interessati alle molteplici sfumature del passato. E tuttavia viene da chiedersi se questa valorizzazione di una memoria intima, che attrae istintivamente perché rinvia ai ricordi di famiglia (e che ha il pregio in ogni caso di diffondere echi di un passato comune) non finisca per avvalorare una cattiva storia. Coloro che leggeranno queste pagine si renderanno conto che la guerra italiana fu qualcosa di ben più vasto, complicato e contraddittorio del sommarsi di alcune biografie, o si fermeranno alla facile e gradevole superficie del racconto?
La struggente elegia di Olmi
Naturalmente, è molto più facile stimolare un rifiuto emotivo della guerra come luogo dell’orrore che esortare ad una lucida (ma faticosa) comprensione delle sue radici profonde. In Torneranno i prati Ermanno Olmi fa esattamente questo: attira il pubblico in una struggente narrazione sulla tragedia della guerra. Questo film ha non pochi meriti tecnici (la fotografia è splendida; l’ambientazione, sull’Altipiano delle grandi nevicate di inizio 2014, affascinante) ma anche alcuni problemi narrativi, non ultimo il fatto che la lunga sequenza finale sia stata tagliata nel montaggio finale. Peccato, perché lasciarla avrebbe aiutato lo spettatore a comprendere il registro onirico del racconto. Torneranno i prati sfugge infatti volutamente al registro realistico, cosa che Olmi ha dichiarato a più riprese, e si basa piuttosto sul fraintendimento della sua fonte letteraria esplicita (La paura di De Roberto) e sul debito psicologico (ma implicito) verso Un anno sull’Altipiano di Lussu, non esattamente un esempio di memorialistica onesta. Così, alla fine, quella che è una visione del regista sulla natura umana e la violenza viene da taluni spacciato come un documento sugli eventi del 1915-18, come se le bisbigliate riflessioni filosofiche di Santamaria e Sperduti avessero qualcosa a che fare con l’esperienza della trincea.
Eppure, possiamo essere sicuri che proprio così verranno percepiti questi e altri racconti: testimonianze di ciò che fu, mentre sono tutt’al più documenti di un’ossessione generazionale, l’idea che per quella guerra si debba ancora chiedere scusa. Forse è ora di accorgersi che sono passati cento anni e che si può cominciare a discuterne con la giusta distanza.