Spiace dirlo, ma il «reato di negazionismo» ha trovato un clima favorevole, paradossalmente, nel Paese di Voltaire, di Montesquieu, di Madame de Staël, di Benjamin Constant e di Alexis de Tocqueville. Nel 1990 il Parlamento francese ha approva una legge, proposta dal deputato comunista Gayssot, che punisce la negazione del genocidio. È probabile che la Francia volesse fare ammenda per la politica antisemita del regime di Vichy e dimostrare al mondo che non vi sarebbe stato nel suo futuro un nuovo «caso Dreyfus».
di Sergio Romano dal «Corriere della Sera» del 21 ottobre 2013
Ma quella legge illiberale ha avuto il prevedibile effetto di suscitare una sorta d’invidia in tutti coloro che si sentivano dimenticati e trascurati. Se la negazione del genocidio ebraico è un reato, perché non riservare lo stesso trattamento alle stragi e ai massacri di cui furono vittime altri gruppi etnici e religiosi? In una lettera a Dino Messina apparsa sul suo blog («La nostra storia»), uno studioso dell’Università di Roma, Eugenio Di Rienzo, ha ricordato che «alla normativa Gayssot ha fatto seguito, nel 2001, l’approvazione di altre due disposizioni legislative che puniscono come reato la negazione del genocidio armeno e qualsiasi affermazione tendente a non considerare la schiavitù come un “crimine contro l’umanità”». Per alcuni mesi, qualche anno fa, sembrò addirittura che la «negazione del genocidio» sarebbe diventata un reato europeo.
Fu quello il momento in cui gli storici cominciarono a manifestare le loro preoccupazioni e a lanciare segnali d’allarme. Fra i primi a prendere posizione vi furono Pierre Nora, autore di un grande studio sui luoghi della memoria, e René Rémond, storico della Francia moderna e contemporanea. Il primo è di origine ebraica, il secondo, morto nel 2007, era cattolico. Nora, in particolare, ha creato un’associazione («Liberté pour l’histoire») e ha chiesto ad altre sedici persone di firmare un appello. Appartengo a quel gruppo, e credo che la migliore risposta alla sua lettera sia la riproduzione del testo:
«Preoccupati dei rischi di una moralizzazione retrospettiva della storia e di una censura intellettuale, noi ci appelliamo alla mobilitazione degli storici europei e alla saggezza dei politici. La Storia non deve essere schiava dell’attualità né essere scritta sotto dettatura da memorie concorrenti. In uno Stato libero nessuna autorità politica ha titolo per definire la realtà storica e per restringere la libertà dello storico sotto la minaccia di sanzioni penali. Agli storici noi chiediamo di raccogliere le loro forze all’interno del loro Paese creando strutture simili alla nostra e, in questo momento, di firmare individualmente questo appello per imprimere un colpo di freno alla deriva delle leggi sulla memoria.
Ai responsabili politici chiediamo di comprendere che se hanno l’obbligo di custodire la memoria collettiva, non devono istituire, con una legge e per il passato, delle verità di Stato la cui applicazione giudiziaria può avere gravi conseguenze per il mestiere dello storico e per la libertà intellettuale in generale. In democrazia la libertà per la storia è la libertà di tutti».