Kennedy? Un pessimo presidente, lo dimostrano le carte

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Decorre in questi giorni l’anniversario della crisi dei missili con Cuba. Quando dopo il disastro della Baia dei Porci Kennedy portò il mondo sull’orlo della terza guerra mondiale. Documenti desecretati di recente mostrano quanto il Presidente fosse inadeguato. Si era dimenticato di avere schierato missili in Turchia.

di Alessandro Tapparini da Linkiesta del 21 ottobre 2012

Non sapremo mai cosa passò per la testa del Consigliere per la Sicurezza Nazionale McGeorge Bundy quella mattina di cinquant’anni fa, mentre, in un ufficio dell’Ala Ovest della Casa Bianca, studiava gli ingrandimenti delle fotografie scattate dall’U2 che aveva sorvolato Cuba due giorni prima. Per quarantacinque giorni l’intelligence americana era rimasta al buio, senza immagini aggiornate dei movimenti sul suolo cubano. Dopo lo scandalo dell’U2 abbattuto dai sovietici nel 1960 mentre sorvolava la Siberia, la questione degli aerei-spia era divenuta fonte di crescente imbarazzo per la Casa Bianca; il 9 settembre un altro U2 americano decollato da Taiwan era “andato perso” in Cina, e a quel punto Kennedy aveva ordinato di sospendere tutti i voli su Cuba. La Cia era assolutamente contraria. John McCone, il nuovo direttore che Kennedy aveva messo a capo dell’Agenzia dopo il disastro della Baia dei Porci, era sempre allarmato da sempre più frequenti segnalazioni di strani movimenti sull’isola. Dopo dieci giorni di tormentate discussioni aveva strappato l’autorizzazione a quel nuovo sorvolo per domenica 14 ottobre, nonostante alcuni consiglieri di Kennedy – Bundy in testa – continuassero a liquidare con sufficienza i suoi moniti come ansie maniacali.

Le foto di quella maledetta domenica – quasi un centinaio, in sei minuti – ritraevano una verità agghiacciante quanto umiliante. Erano state scattate proprio mentre Bundy, intervistato nel programma della Abc “Issues and Answers”, smentiva qualsiasi ipotesi che i sovietici avessero installato nell’isola caraibica “una significativa capacità offensiva”. E invece, secondo gli analisti che le avevano esaminate per più di ventiquattr’ore nel Centro di Interpretazione Fotografica della Cia (nascosto sopra una concessionaria d’auto a Washington Dc), quelle che si vedevano nelle foto erano proprio rampe per il lancio di missili terra-terra. Missili russi, in grado di colpire con testate nucleari qualsiasi città della costa orientale degli Stati Uniti, ed anche la costa del Golfo del Messico e buona parte del Texas. Testate da venti a settanta volte più potenti di quelle sganciate su Hiroshima e Nagasaki nel 1945. Durante quelle cruciali settimane di auto-oscuramento era accaduto proprio ciò che la Casa Bianca, pressata dai repubblicani in vista delle imminenti elezioni di mezzo termine, si era ostinata a negare. Bundy si precipitò nell’appartamento del presidente al secondo piano, e gli mostrò le foto. Ed ebbero così inizio i tredici giorni più drammatici della storia della Guerra Fredda.

Le riunioni segrete del Comitato Esecutivo di crisi vennero tutte registrate dal sistema audio segreto che il presidente aveva fatto attivare poche settimane prima pensando ad una autobiografia. E quelle registrazioni tra il 1997 e il 2011 sono state tutte desecretate. «Perché li hanno piazzati proprio lì?» chiede Kennedy il primo giorno. «Che vantaggio ne trae? È come se, all’improvviso, noi cominciassimo a mettere un numero significativo di Mrbm (missili atomici a medio raggio, ndr) in Turchia: sarebbe dannatamente pericoloso, immagino». «Beh, noi lo abbiamo fatto, signor presidente» gli risponde Bundy dopo un momento di imbarazzato silenzio. Kennedy a quanto pare non se ne ricordava. L’aveva autorizzata lui meno di un anno prima la installazione di missili nucleari Jupiter in Turchia, vicino al confine con l’Unione Sovietica. Ma l’aveva già dimenticato. Krushev però no. Non si dava pace. A volte mentre si trovava sul Mar Nero con qualche ospite puntava il binocolo all’orizzonte e ringhiava: «Sai cosa vedo? Vedo missili americani in Turchia, puntati sulla mia dacia». Aveva voluto pareggiare il conto. Politicamente, più che altro: sul piano militare la parità era assolutamente fuori portata. Il numero di testate nucleari americane era diciassette volte superiore a quelle sovietiche: l’installazione a Cuba poteva anche raddoppiare o persino triplicare il potenziale strategico dei russi, ma anche così non sarebbe cambiato granché.

Il punto era che la rivoluzione cubana era in pericolo. Dopo la Baia dei Porci, i Kennedy avevano temporaneamente accantonato l’idea dell’invasione ma avevano proseguito con altri mezzi. Bobby sovrintendeva dal novembre del 1961 la cosiddetta “Operazione Mangusta”, la pianificazione di 33 diverse azioni (come 33 sono le varietà della mangusta) per rovesciare Castro: dall’assassinio del dittatore, al colpo di stato, al boicottaggio di varie infrastrutture. Fidel e Che Guevara lo sapevano, ed avevano chiesto aiuto ai russi. E Kruscev non aveva avuto esitazioni. A pochi mesi dalla costruzione del Muro di Berlino, Cuba era l’unico paese al mondo ad aver adottato un regime comunista spontaneamente, senza coercizione: se fosse caduta, se Mosca non le avesse dato protezione, il Sudamerica e tutto il Terzo Mondo ne avrebbero tratto le conseguenze del caso.

Nella prima riunione del Comitato di crisi il Segretario alla Difesa Robert McNamara è tra i primi a spingere per un attacco militare: un bombardamento a sorpresa, seguito da un blocco navale o dall’invasione che non si era mai smesso di pianificare. Molti la pensano come lui. Ma alla seconda riunione ha già dei ripensamenti. «Non so bene in che tipo di mondo vivremo dopo aver colpito Cuba… dopo aver cominciato, come ci fermiamo?». L’alternativa è un blocco navale accompagnato dalla minaccia di un attacco. Pochi giorni fa i National Archives, dopo una lunghissima negoziazione con gli eredi di Bobby Kennedy (il quale, al solito, presenziava più come fratello-alter ego che come Ministro della Difesa), hanno ottenuto di pubblicare sette scatoloni (oltre 2.700 pagine) di documenti fino ad oggi rimasti segreti. In un appunto manoscritto da Bobby durante la seconda riunione della crisi è annotata la spunta di una vera e propria votazione tra i falchi favorevoli all’attacco e le colombe più propense al solo blocco navale. Tra i primi si leggono i nomi di Bundy e di McCone, e di tutti i presenti in uniforme. Tra i secondi McNamara, il Segretario di Stato Dean Rusk, lo speechwriter del presidente Ted Sorensen. Il sottosegretario alla Difesa Paul Nitze, inizialmente inserito nella colonna delle colombe con un punto interrogativo, è spostato in quella dei falchi. In tutto undici voti per l’embargo, e sette per l’attacco.

Il giorno dopo anche Bobby, inizialmente favorevole, si schiera contro l’opzione del bombardamento a sorpresa, inaccettabile «con tutti i ricordi di Pearl Harbour: per centosettantacinque anni, non siamo stati quel genere di Paese». Interpellato, si schiera per la linea prudente anche l’ex presidente Eisenhower. La prudenza pare dettata da una questione morale, ma la ragione che affiora è più elementare: la doverosa paura dell’Armageddon. Un anno addietro Kennedy aveva invitato la gente ad installare rifugi antiatomici prefabbricati nel giardino di casa, promettendo buone probabilità di sopravvivenza nella malaugurata ipotesi di scoppio di una guerra che «noi non vogliamo, ma non dipende solo da noi». Di lì a tre settimane, per tutta risposta, i sovietici avevano fatto esplodere la “Bomba Zar” sopra l’isola di Novaya Zemlya, a Nord del Circolo Polare Artico, esibendo trionfalmente al mondo la propria disponibilità di un ordigno nucleare di potenza tripla rispetto a quella sperimentata dagli americani sette anni prima con l’annientamento dell’atollo di Bikini – il famoso test Castle Bravo che a sua volta aveva decretato il passaggio alla bomba a fusione, mille volte superiore a quella degli ordigni a fissione sganciati sul Giappone nel 1945.

Quelle detonazioni avevano spazzato via ogni residua illusione di una guerra atomica con esito diverso dalla “fine del mondo”. Domenica 22 ottobre, muovendo un passo verso l’orlo del baratro, Kennedy decide di aprire una trattativa, chiedendo il ritiro dei missili già schierati e inviando la Seconda Flotta da Norfolk, in Virginia, a bloccare la strada alle otto navi russe che erano già in viaggio attraverso l’Atlantico – territorio nella Nato – cariche di altre centinaia di testate. Ma prima vuole strappare ai sovietici il vantaggio tattico di svelare all’America e al mondo la presenza di quei missili a un tiro di schioppo da Miami. Alle sette di sera di lunedì 22 ottobre, tutti i programmi televisivi vengono interrotti dall’immagine del presidente seduto alla scrivania, che annuncia l’acceduto e proclama il blocco navale: “Nessuno è in grado di prevedere esattamente il corso degli eventi o quali saranno i costi o le perdite… Ma il pericolo più grande di tutti sarebbe stato non fare niente”. Fiato sospeso per 48 ore, durante le quali il mondo si prepara al peggio.

Mercoledì sera il primo telegramma di Kruscev: ogni interferenza contro le navi sovietiche in rotta verso Cuba verrà considerata come un «atto di pirateria» ed una dichiarazione di guerra. «Quella sera andammo a casa con in tasca i tesserini per accedere ai rifugi segreti antiatomici, convinti che quella sarebbe stata l’ultima notte del mondo come lo avevamo conosciuto» avrebbe raccontato molti anni dopo Pierre Salinger, il portavoce di JFK.
Oggi sappiamo che nemmeno Kruscev desiderava andare fino in fondo. Gli unici veri oltranzisti erano Castro e Guevara, che spinsero sempre per la linea dura a costo di immolare mezzo emisfero.

Sabato 27 ottobre la riunione mattutina alla Casa Bianca venne interrotta da un lancio della Associate Press: «Mosca – il Premier Kruscev ha annunciato al presidente Kennedy che ritirerà le armi offensive da Cuba se gli Stati Uniti ritireranno i loro missili dalla Turchia». Fine del bluff. Per vent’anni la versione ufficiale fu che Kennedy rifiutò l’offerta e contropropose uno scambio tra il ritiro dei missili da parte dei russi in cambio della promessa, da parte degli Usa, di non tentare mai più di invadere Cuba; e che Kruscev, di fronte all’ultimatum “prendere o lasciare” pena l’attacco entro 24 ore, cedette a quelle condizioni. Ma nel 1982, in occasione del ventesimo anniversario, McNamara, Bundy ed altri protagonisti di quei giorni rivelarono in un articolo su Time che in realtà l’accordo si era retto su una seconda contropartita segreta, il ritiro degli Jupiter della Nato dalla Turchia, in silenzio e a distanza di sei mesi per non dare nell’occhio. Kruscev aveva ottenuto di ritirarsi alle sue condizioni, ma a patto di non poterlo rivendicare pubblicamente.

Tutti i documenti emersi nel corso degli anni confermano che Fidel seppe dell’accordo a cose fatte, e visse con rabbia e frustrazione quella che il resto del mondo accolse come una scampata catastrofe. Una settimana dopo Mikoyan, il vice di Kruscev, arrivò a Cuba per far loro ingoiare il rospo. Il Che dichiarò di parlare a nome di Castro quando gli sbatté in faccia l’accusa di averli vilmente traditi. «Prendiamo atto che voi siete pronti a morire nobilmente» gli rispose Mikoyan, «ma morire nobilmente non è pratico».

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Inserito su www.storiainrete.com il 23 ottobre 2012

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