Un recente e importante ritrovamento archeologico avvenuto in Calabria riporta in evidenza la drammatica crisi che attraversò la Roma repubblicana tra il 73 e il 71 a.C. con la dura rivolta degli schiavi capeggiati dal leggendario Spartaco.
di Fabio Figara per “Storia in Rete.com” del 17 novembre 2024
Obbedire e sottostare sempre ai padroni, considerato alla stregua di una bestia, senza diritti e costretto a combattere e sanguinare per il godimento del pubblico: per un guerriero fiero come il trace Spartaco (109 a.C. – 71 a. C.) quella vita era divenuta insostenibile e inaccettabile. Il trattamento degli schiavi era tremendo, e le leggi romane di certo non li tutelavano. Spartaco era stato un ausiliario dell’esercito romano: accusato di diserzione, fu reso schiavo e, nel 75 a. C., costretto a divenire gladiatore in una scuola di Capua. Da qui, dopo due anni di sofferenze, fuggendo insieme ad alcuni compagni, riuscì a creare un’armata che ottenne le prime vittorie contro i romani, aumentando la sua popolarità e anche accogliendo nuove forze da altri schiavi ribelli.
La rivolta guidata da Spartaco, per quanto sottovalutata inizialmente dalle più alte gerarchie romane, nel volgere di breve tempo divenne un affare di Stato degno di attenzione. Il compito di annientare l’esercito di schiavi fu affidato così a Marco Licinio Crasso (115 a. C. – 53 a. C,) personaggio che farà successivamente parte del “primo triumvirato” con Cesare e Pompeo. Dopo un periodo trascorso in Spagna per sfuggire alle persecuzioni di Mario e Cinna, alla morte di quest’ultimo, Crasso era riuscito a rientrare in Italia, unendosi all’esercito di Silla e contribuendo alla vittoria di Porta Collina nell’82 a. C., battaglia con cui il dittatore era riuscito ad annientare un intero reparto sannita nel corso di quella che conosciamo come “guerra sociale”. Negli anni successivi, dimostrando notevoli doti di spregiudicato affarista immobiliare unite ad un’altrettanta eccessiva avidità, e divenendo personaggio di rilievo all’interno della società romana, Crasso ottenne il compito di affrontare Spartaco con un numero consistente di legioni. Due eserciti consolari, infatti, erano stati già battuti dalle bande di schiavi nel 73 a. C.
Quella di Spartaco non era la prima rivolta di schiavi che Roma doveva affrontare, bensì la terza guerra servile, che per le violenze perpetrate, le devastazioni ma anche l’eco che ebbe in tutto il mondo romano, fu senz’altro la più complessa da gestire.
Deciso a chiudere la questione, Crasso elaborò uno stratagemma per circondare gli schiavi giunto nel frattempo nel Piceno: ma il suo luogotenente Mummio, disobbedendo agli ordini, preferì attaccare Spartaco frontalmente, uscendone sconfitto. Molti soldati romani fuggirono di fronte alla ferocia dei guerrieri di Spartaco. Crasso decise così di punire questo atto di vigliaccheria, rispolverando un’antica e terribile usanza, la decimazione: un soldato ogni dieci veniva messo a morte secondo una scelta casuale. Plutarco scrive che «i cinquecento che erano fuggiti per primi, furono suddivisi in cinquanta decine e messi a morte uno – a sorte – per ciascuna decina.» Un cerimoniale, che lo storico definisce «raccapricciante e lugubre», e a cui tutto l’esercito doveva obbligatoriamente assistere, accompagnava queste uccisioni.
Forte di questa prima vittoria, Spartaco riuscì a giungere nell’attuale Calabria (Bruzio), probabilmente con l’intenzione di arrivare in Sicilia nella speranza di allearsi con altri schiavi che, nel frattempo, avevano sollevato un’altra rivolta: purtroppo l’impresa si rivelò fallimentare, e Spartaco tentò così di tornare indietro, verso nord. Interpretando i movimenti del nemico, Crasso aveva fatto erigere un vallo di più di cinquanta chilometri che collegava il Tirreno allo Ionio, un terrapieno con fossato composto da blocchi in pietra per bloccare l’esercito di schiavi. Pur nella difficoltà, in un primo momento Spartaco riuscì a rompere il blocco e a dirigersi in Apulia, poi in Lucania, ma venne successivamente sconfitto presso il fiume Sele (71 a. C.): sessantamila rivoltosi morirono, tra cui lo stesso Spartaco, tradito da un pirata cilicio con cui aveva organizzato il passaggio in Oriente. Di tutto l’esercito servile, seimila schiavi furono crocifissi lungo la via Appia, da Capua a Roma; altri cinquemila, che erano invece riusciti ad aprirsi un varco per fuggire verso nord, furono attaccati e uccisi dall’esercito di Pompeo che tornava dalla guerra contro Sertorio in Spagna.
Studi recenti, pubblicati anche sul sito dell’Archaeological Institute of America e rimbalzati sulla stampa nazionale nel corso dell’estate scorsa, hanno confermato la presenza dei resti del vallo di Crasso (quasi tre chilometri di struttura rimasta) adagiati nei boschi del Dossone della Melia in Aspromonte. Le ricerche compiute dal gruppo di archeologi guidato da Paolo Visonà dell’Università del Kentucky, sollecitate anche da associazioni e gruppi di appassionati del posto, come i volontari del Gruppo escursioni Aspromonte (Gea), che da sempre si interrogano sulla presenza della costruzione in quei luoghi, hanno potuto appurare e confermare come i resti studiati facciano effettivamente parte dell’architettura militare voluta da Crasso per fermare Spartaco grazie all’utilizzo di georadar, di laser per mappare la topografia del terreno, alla magnetometria e alle tecniche di campionamento del suolo, unite ad un sapiente studio delle fonti antiche. Notevole e interessante la quantità di armi romane scoperte durante gli scavi. Ma ancora molti studi e ricerche sono necessarie per portare alla luce quanto nasconde il sito: in corso d’opera, è importante anche operare per proteggere il luogo dall’incuria e dai saccheggiatori.