di Marica Flore per “Storia In Rete”
Alessandro Magno, Cristoforo Colombo, Napoleone Bonaparte, Mahatma Gandhi. Nella storia globale gli attori sono principalmente maschi. E le donne dove sono state per tutto questo tempo?
Questa è la domanda che tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso ha ispirato la nascita della “storia di genere”, un genere storiografico il cui intento è quello di dare visibilità alle donne nella storiografia ufficiale. La “storia di genere” parte dal presupposto che lo studio della storia si sia fondato su una pressoché totale assenza dei soggetti femminili come soggetti attivi nei processi storici. Soltanto regine, principesse, aristocratiche ed altre figure appartenenti alle fasce più alte della società hanno tradizionalmente ottenuto una certa attenzione da parte degli studiosi. Questo genere storiografico, invece, cambia la prospettiva, considerando appunto il genere come una categoria imprescindibile della ricerca storica e facendo oggetto di studio anche le biografie e le condizioni di vita delle donne comuni. Si è trattato della volontà non solo di recuperare uno spazio di visibilità all’interno della storia, ma anche per le storiche di inserirsi nel campo della storiografia. Quest’ultima, infatti, si era affermata come disciplina scientifica a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, ma fino ad allora era rimasta prerogativa degli uomini.
Una pietra miliare in questo dibattito è costituita dal saggio La storia delle donne in transizione: il caso europeo, pubblicato per la prima volta nel 1976 e apparso in traduzione italiana l’anno successivo (nella rivista femminista “Nuova DWF, Donnawomanfemme”, 3, pp. 7-33). L’autrice Natalie Zemon Davis, storica americano-canadese con cattedra all’Università di Princeton, nel New Jersey, invitava a considerare “il peso dei ruoli sessuali nella storia” e sottolineava la necessità di includere il genere tra le categorie fondamentali per l’interpretazione dei fatti del passato. Esattamente dieci anni dopo venne pubblicato un altro importante testo, intitolato Il “genere”: un’utile categoria di analisi storica (l’edizione italiana apparse in “Rivista di storia contemporanea”, XVI, 1987, 4, pp. 560-586). Nel suo saggio, la storica americana Joan Wallach Scott, professoressa emerita alla School of Social Science dell’Institute for Advanced Study di Princeton dal 2014, chiariva innanzitutto il significato del termine “genere” definendolo come “una categoria sociale imposta a un corpo sessuato”. In altre parole, il genere può essere definito come l’insieme di quelle caratteristiche che una determinata società – in un tempo e spazio determinati – attribuisce agli uomini e alle donne circa i ruoli più adatti a loro per il solo fatto di essere uomini o donne. Ad esempio, le donne sono generalmente considerate più emotive degli uomini e più adatte a lavori che prevedono la cura della persona, mentre gli uomini sono spesso associati a lavori fisicamente pesanti. E’ importante in questo senso distinguere il genere dal sesso, termine che fa invece riferimento al complesso dei caratteri anatomici, morfologici, fisiologici di un individuo alla sua nascita sulla cui base si distinguono i corpi maschili e femminili.
La “storia di genere” non è interessata a prendere in considerazione la mera differenza dei sessi. Ciò che le interessa indagare è come, specie in passato, la subordinazione femminile avesse origini esclusivamente socioculturali, e non naturali. Ci sarebbe in realtà da distinguere la “storia di genere” dalla “storia delle donne”. Le prime ricerche di “storia delle donne” vennero portate avanti negli anni Sessanta del secolo scorso nei paesi anglosassoni. In Italia si dovette aspettare ancora qualche anno: la prima testata ad occuparsi di storia al femminile, ad esempio, è stata Memoria. Rivista di storia delle donne, attiva dal 1981 al 1991. L’obiettivo della “storia delle donne” era quello di contrastare la prospettiva tradizionale della storiografia, coincidente con quella maschile, e dare voce e visibilità ai soggetti femminili. Per farlo si cercava di rispondere a due principali interrogativi: da una parte, i motivi dell’esclusione delle donne dalla storia tradizionale; dall’altra, i ruoli della donna nella storia. Il lavoro di Zemon Davis, però, propose un nuovo punto di vista più incentrato sulla relazione tra i sessi. Le ricerche successive dettero così vita alla “storia di genere”, in cui il genere diventa lo strumento fondamentale con cui comprendere come sono elaborati il potere e i rapporti sociali tra uomini e donne. Tuttavia, il confine tra i due campi di studio è molto ambiguo perché in entrambi i casi l’oggetto della ricerca resta la condizione femminile, sia pur studiata, come si è detto, da due angolazioni diverse.
Tra gli anni Ottanta e Novanta tre sono state le principali piste che la “storia di genere” ha intrapreso a livello internazionale: alcuni studiosi hanno prediletto l’inserimento delle donne nel campo delle discipline che le avevano fino ad allora ignorate; altri hanno preferito introdurre la storia delle donne nel quadro della storia “generale”; infine, c’è chi sostiene che si debba rappresentare la storia delle donne come una disciplina scientifica a se stante. In Italia è stata per lo più seguita la seconda pista, sulla base dell’idea che un’analisi congiunta di uomini e donne all’interno della storia generale permetta di comprendere meglio i contesti – come la famiglia, il lavoro, la cittadinanza – e le dinamiche che nel corso della storia hanno definito i rapporti tra i sessi. In particolare, dal 1989 nel nostro Paese è attiva la Società Italiana delle Storiche, che si propone l’obiettivo di promuovere la ricerca storica, didattica e documentaria nell’ambito della “storia di genere”. La SIS collabora con case editrici, organizza corsi di formazione per insegnanti, promuove seminari e concorsi e dal 2002 pubblica Genesis, che è attualmente la più prestigiosa rivista italiana in questo campo.