di Filippo Facci, dalla sua pagina facebook
Il generale Mario Mori non farà trattative. Ci sono due libri, all’orizzonte, che faranno giustizia del suo caso e dell’incredibile processo «trattativa» oltreché di tante narrazioni che riguardano le stragi di Capaci e di via D’Amelio, più molto altro ancora: uno dei libri l’ha scritto lui, Mori, e si intitolerà «Mafia e appalti», l’altro l’ha scritto il suo avvocato Basilio Milio – con certosina pazienza, in anni di lavoro – e si intitolerà «Ho difeso la Repubblica» (nelle librerie a fine ottobre) con la prefazione dell’autore di questo articolo.
Il generale Mario Mori, fondatore del Ros dei Carabinieri e direttore del Sisde, eroe di questo Stato e vittima dello stesso Stato nelle forme di certa magistratura, ha già dato anticipazione delle tonalità che tradiranno il suo ventennale riserbo sull’argomento: nella sua prima uscita pubblica dopo l’assoluzione in Cassazione del 23 aprile scorso, ha detto che si tiene in forma fisica perché «li devo veder morire tutti, lo dico con trasporto, con odio»; parlava di quanti l’hanno voluto alla sbarra per 17 anni. E, nel libro scritto dal suo avvocato Basilio Milio, parlerà per una volta anche di se stesso e dell’uomo che ha condotto Totò Riina a 25 anni di 41bis, degli infamanti processi che tuttavia dovette subire per la mancata cattura di Bernardo Provenzano e per la mancata perquisizione del covo di Riina, ma soprattutto dell’accusa mossa ai carabinieri di aver tramato con Cosa nostra nel 1992-1994 per minacciare lo Stato e ottenere benefici per i mafiosi. Parlerà delle indagini che dovette condurre da solo e delle incredibili ragioni che si celavano dietro la sua rottura con la procura di Palermo rappresentata dal procuratore Pietro Giammanco.
Parlerà di quando erano «avevano vinto loro» perché erano morti Falcone e Borsellino («i migliori di noi») e non ci fu superiore o magistrato o ministro che gli disse «facciamo qualcosa», perché – come ha detto ieri anche al quotidiano Qn – «erano tutti terrorizzati, nascosti sotto le scrivanie aspettando che passasse la piena».
Nel libro dell’avvocato Basilio Milio in particolare si ricostruisce come le più buie viscere di Tangentopoli fossero già tutte nelle piste che Falcone e Borsellino battevano quando a Milano cincischiavano ancora sulle tangentine di Mario Chiesa: e che fu questo a uccidere entrambi. Paolo Borsellino, nei pochi giorni di vita che gli rimasero dopo la strage di via Capaci, parlò con Antonio Di Pietro (25 maggio 1992) dopo che l’aveva già fatto anche Falcone: e «stava venendo fuori», disse Di Pietro, «che le imprese nazionali, si associavano con imprese locali, creavano associazioni di imprese … realizzavano gli appalti e producevano dazioni di denaro al sistema dei partiti e ai pubblici ufficiali… vi erano imprese nazionali le quali, pur lavorando sicuramente in Sicilia, non parlavano solo dei lavori svolti in Sicilia».
Va rilevato, notare, che l’esame di Antonio Di Pietro al processo «trattativa» fu chiesto solo dalla difesa di Mori e fu ritenuta superfluo dal collegio giudicante di primo grado, e ammesso solo in Appello.
Ma l’attenzione di Borsellino per l’inchiesta «mafia e appalti» dei Ros di Mario Mori – si legge nel libro – è stata confermata anche da molti suoi colleghi di Palermo: tra questi Vittorio Aliquò, Gioacchino Natoli e Leonardo Guarnotta: «Borsellino». Ha detto quest’ultimo, «riteneva che l’uccisione di Falcone fosse dovuta a un intreccio perverso tra Cosa Nostra, mondo imprenditoriale, mondo economico, mondo politico… tutti avevano intenzione a che Falcone fosse eliminato».
l libro di Basilio Milio è documentatissimo e riparte dagli albori. Riparte dal 1990 e da Augusto Lama, un pm di Massa Carrara che per primo indagò su presunte infiltrazioni mafiose nelle cave di marmo avvenute attraverso due aziende i cui pacchetti azionari appartenevano alla Calcestruzzi Ravenna, società del Gruppo Ferruzzi ma che «sarebbero state controllate da personaggi siciliani vicini ad un gruppo mafioso».
Una conferenza stampa del pm Lama, il 10 febbraio 1992, riferì dell’inchiesta e fece nomi e cognomi. Finì male. Il magistrato fu messo sotto procedimento disciplinare e neutralizzato.
Intervennero anche il ministro della Giustizia a margine di un esposto che «censurava le esternazioni su possibili coinvolgimenti del gruppo Ferruzzi con la mafia».
Il filone risorse appunto in Sicilia col dossier «mafia-appalti» in cui convergevano carte e verbali che mettevano a nudo il legame strettissimo tra Cosa Nostra e il mondo imprenditoriale e politico per la spartizione delle commesse pubbliche, il cosiddetto «tavolino» al quale prendevano parte personaggi di altissima levatura.
Ed era stato il generale Mori a consegnare a un Giovanni Falcone «entusiasta» l’informativa «mafia appalti»: che parlava per esempio e nel dettaglio di Angelo Siino, «il ministro del lavori pubblici di Cosa Nostra», la quale, scrisse Mori, «temeva gli attacchi alle sue attività economiche che le consentivano di sostenersi e di ampliare il proprio potere… Siino era l’uomo di Cosa Nostra incaricato di gestire i rapporti con gli altri protagonisti dell’affare appalti».
Risultava che tra Cosa Nostra e imprenditoria e politica le ultime due non erano vittime, ma partecipi. Se ne prese coscienza ancora prima che l’inchiesta Mani pulite prendesse corpo, come ha confermato lo stesso Antonio di Pietro in dichiarazioni processuali rese a Palermo.
Il 15 marzo 1991, durante un convegno pubblico ancora al castello Utveggio, Giovanni Falcone lo aveva detto: «La materia dei pubblici appalti è la più importante… consente di far emergere l’intreccio tra mafia e imprenditoria e politica… La mafia è entrata in borsa». Fu questo, come ammetterà Angelo Siino, a mandare in bestia vari imprenditori legati alla mafia: «Falcone aveva compreso che dietro la quotazione in Borsa del gruppo Ferruzzi c’era effettivamente Cosa Nostra».
Per questo, dopo la strage di Capaci, anche Paolo Borsellino sapeva di avere le ore contate: aveva compreso che dietro la quotazione in Borsa del gruppo Ferruzzi c’era effettivamente la Mafia, aveva capito che Raul Gardini, allora secondo industriale italiano, aveva ceduto il 50 per cento delle azioni della sua Calcestruzzi a Totò Riina e alla famiglia Buscemi di Palermo, sapeva dell’accordo siglato presso la sede della Calcestruzzi tra lo stesso Siino, per conto di Cosa Nostra, e gli industriali del Nord accorsi in Sicilia, tra questi l’ingegner Giovanni Bini della Calcestruzzi-Ferruzzi di Ravenna, l’ingegner Lorenzo Panzavolta, il presidente di Confindustria Sicilia Filippo Salamone il quale rappresentava anche il gruppo Salamone-Micciché-Vita di Agrigento, poi Sergio Di Paolo e Giuseppe Crini della Impregilo, Romano Tronci della De Bartolomeis che rappresentava gli interessi delle cooperative del Pci, Giuseppe Li Pera per la Rizzani-De Eccher di Udine, e ancora la Cogefar Impresit del gruppo Fiat. Borsellino sapeva di quella spartizione da 25mila miliardi di lire che prevedeva un 2,5 per cento a Cosa Nostra, più un altro 2,5 per cento per «proteggere» le imprese (con annessa fornitura di subappalti a impresine legate alla Mafia) e infine uno 0,90 per cento addizionale per Totò Riina e Bernardo Provenzano, che avrebbero garantito la pace sociale. Borsellino sapeva tutto.
Trent’anni dopo, di quella stagione di sangue e di morte – come racconta incredibilmente il libro di Basilio Milio – cominciamo e saperne qualcosa anche noi.