“Comprendere l’idioma del nemico, parlare la stessa lingua di quelli che uccidono. di quelli che devono uccidere è un supplizio che deprime come se una montagna ti cadesse sulle spalle”. Queste parole di Rafael Garcia Serrano (La fiel infanteria) messe da Arturo Perez-Reverte nell’incipit del suo ultimo romanzo dedicato a un episodio della guerra civile spagnola (Linea di fuoco, Rizzoli, pp.600, euro 22) restituiscono nel modo più efficace lo stato d’animo di molti combattenti costretti a vivere l’esperienza di guerre fratricide.
Perez-Reverte è un maestro nella narrazione della guerra in tutti i suoi aspetti: feroci, umani, fraterni, militari. Non a caso prima di dedicarsi ai romanzi ha fatto il corrispondente di guerra su molti fronti: dal Libano all’Eritrea, dalla Bosnia al Nicaragua. Posato il taccuino del giornalista ha preso la penna del romanziere senza dimenticare gli orrori della guerra vista da vicino quando ha deciso, come in questo caso, di raccontarla nelle sue storie.
Al conflitto fratricida che insanguinò la Spagna dal luglio del 1936 all’aprile del 1939, causando circa 400 mila morti, e che ovviamente da spagnolo sente sulla sua pelle, ha già dedicato tre romanzi che hanno come protagonista il personaggio di Lorenzo Falcò, agente segreto dietro le linee nemiche per conto delle forze nazionaliste (il suo capo è la figura misteriosa dell’Ammiraglio). Un agente che compie il suo lavoro con la professionalità di un chirurgo, senza coinvolgimenti ideologici o emotivi. Tutt’altro il caso di Linea di fuoco. Qui non c’è un protagonista come Falcò, ma gli attori sono tanti, divisi tra i due schieramenti in lotta. Lo scenario è quello del fronte dell’Ebro, il fiume che nel 1938 divideva le forze nazionaliste da quelle repubblicane e che proteggeva la Catalogna e quindi Barcellona. Lungo quel fiume, in circa 60 Km, tra luglio e novembre di quell’anno, si svolse una battaglia decisiva, dove i miliziani repubblicani, ormai egemonizzati dal partito comunista e sostenuti dall’URSS, si scontrarono con i nazionalisti, sostenuti a loro volta dalla Germania e dall’Italia, che inviò anche molti volontari. Il bilancio di quei mesi di guerra fu di oltre 20 mila morti. L’iniziativa venne presa dai repubblicani, che tra il 24 e il 25 luglio, per distogliere i nazionalisti dall’offensiva verso Valencia, crearono a sorpresa una testa di ponte per attraversare il fiume, dovendo poi ripiegare sotto il contrattacco franchista al termine dell’offensiva.
Su questa realtà storica Perez innesta il suo romanzo, con fatti e personaggi fittizi, ma ispirati a quelli avvenuti e ai loro protagonisti. Secondo il racconto, nella notte tra il 24 e il 25 luglio, circa 2890 uomini e 19 donne dell’XI Brigata mista dell’esercito della Repubblica attraversarono l’Ebro per stabilire una testa di ponte a Castellets del Segre. I combattimenti durarono dieci giorni, fino alla ritirata dei repubblicani, e il romanzo è la cronaca di quei dieci giorni, alternando l’occhio del reporter di guerra tra l’uno e l’altro fronte, dove si scontrano falangisti, carlisti, mori e legionari da una parte, e miliziani repubblicani e volontari delle Brigate internazionali dall’altra. Gli uni con armi, carri armati e aerei tedeschi e italiani, gli altri con le stesse armi, ma di provenienza sovietica.
L’occhio del reporter è imparziale. Non parteggia per nessuno dei due fronti e non risparmia egualmente nessuno. Eroi e vigliacchi sono egualmente distribuiti. Molti moriranno da entrambe le parti e il sangue che rende viscidi i pochi chilometri tra il fiume e la collina da conquistare o da riprendere è sempre dello stesso colore. Nella descrizione dello scrittore, lo stato d’animo di molti dei protagonisti nel compiere il proprio dovere assume dei contorni che si possono definire religiosi. Sentono insomma di compiere un dovere che non ammette esitazioni, una missione sacra da portare a termine: combattere per creare un mondo nuovo e giusto per i comunisti, convinti che il partito ha sempre ragione; ripulire la Spagna eterna dai senza Dio e riportare l’ordine nel paese per i nazionalisti. Così è per la telegrafista comunista Pato Monzòn, impegnata a stendere e aggiustare il filo delle comunicazioni tra il comando e i reparti avanzati; granitica nelle sue certezze fino all’incontro con il tenente dei miliziani Juan Bascugnana, del quale segretamente si innamora, che con la sua ironia insinua qualche dubbio, mai ammesso coscientemente, nella sua fede incrollabile. Così è anche per il tenente dei legionari Santiago Pardeiro, in prima fila nella battaglia finale per ricacciare i rossi oltre l’Ebro, che non esita a lasciar sgozzare gli ultimi resistenti, ma si rifiuta di far uccidere i pochi che si sono arresi dopo aver combattuto onorevolmente, e per questo si scontra con successo con un capitano arrivato da poco sul campo di battaglia, che avrebbe voluto portare a termine la carneficina.
Per finire due soli episodi emblematici dello spirito con cui Perez ha scritto questo eccezionale romanzo. Il primo riguarda lo scontro tra il maggiore delle milizie Emilio Gamboa Laguna, comandante del battaglione Ostrovskij, e il commissario politico Ricardo, detto il Russo, stalinista duro e puro fino al midollo. Gamboa, stremato e disperato, ha attraversato fortunosamente l’Ebro dopo la ritirata con altri quattro sopravvissuti (degli oltre 400 del battaglione) e trova dall’altra parte il commissario, placidamente seduto con altri intorno a un tavolino, intento a mangiare panini e bere vino, che gli spiega che non si è trattato di una sconfitta, ma di un ripiegamento tattico, previsto dal partito nel quadro di una operazione ben più vasta. Lo scontro è inevitabile e Gamboa riversa sul commissario tutta la sua rabbia di combattente leale e tenace, stanco di essere manipolato dai politici ai quali non interessa quanti operai e contadini (“il meglio della Repubblica”, li definisce Gamboa) vengono massacrati in una operazione destinata all’insuccesso. E, in questo caso, si capisce che, per una volta, il disgusto del miliziano è anche il disgusto dell’autore. Qualcosa di simile ricorre nel secondo episodio. Siamo sull’Ebro, nelle fasi conclusive della ritirata dei repubblicani sconfitti. Due falangisti, Saturiano Bescòs e il caporale Avellanas, stanno esplorando le rive del fiume alla ricerca di nemici nascosti, quando vedono nel centro dell’Ebro un uomo attaccato a una traversa di legno con un ragazzo aggrappato alle sue spalle che cercano di raggiungere l’altra riva. Si tratta del guastatore miliziano Juan Panizo e del giovane Rafael, che gli ha fatto da aiuto. L’ordine è di sparare a chi cerca di fuggire, ma i due amici ormai sono stanchi di uccidere, anche se non possono confessarselo reciprocamente. Quindi prendono la mira con i loro Mauser senza però togliere la sicura. Premono il grilletto ed entrambi i fucili fanno clic senza sparare. Si saranno inceppati si dicono i due e si siedono appoggiati a un albero finendo di rollare le due sigarette che avevano iniziato prima dell’avvistamento. E’ la scena finale del libro. Anche nell’orrore di quello scontro fratricida, la pietà non è morta completamente, ci comunica Perez.
E’ un romanzo che si legge tutto d’un fiato, come si suol dire, e che si raccomanda a chiunque voglia capire cosa sia in realtà una guerra civile, anche perché l’argomento, se non abbiamo perduto del tutto la memoria, ci riguarda direttamente.