La rivolta del 17 giugno 1953 nella Ddr mise l’Urss di fronte alla realtà di un popolo che non era disposto ad assecondare tutto in nome del socialismo e il popolo di fronte alla durezza della repressione sovietica
di Ilko-Sascha Kowalczuk da il Mulino del 15 giugno 2023
Il 17 giugno 1953 un milione di persone a Berlino Est e in tutta la Ddr protestò contro le condizioni politiche ed economiche del Paese. La rivolta, repressa con violenza, causò molte vittime. Rappresenta senza dubbio il più rilevante evento di resistenza contro il comunismo di cui fanno parte anche altre rivolte rimaste impresse nella memoria europea: da quella nel campo di prigionia di Workuta, nell’Unione Sovietica, sempre del 1953 a quella di Poznań; dalla rivoluzione ungherese del 1956 alla repressione della Primavera di Praga del 1968, oltre ad altre numerose proteste in Polonia sino alla emanazione dello stato di guerra nel 1981. La caduta del comunismo (1989-1991), con il suo simbolo indiscusso – l’abbattimento del Muro di Berlino –, è un evento posto alla fine di una lunga serie, della quale siamo diventati consapevoli solo dopo il 1989.
Ciò che accadde quel 17 giugno fu una sorpresa: nessuno l’aveva previsto, né a Est né a Ovest. A Bonn governo e servizi segreti credettero per un po’ che si trattasse addirittura di una messinscena comunista. Otto anni dopo la caduta del “Reich millenario” nessuno credeva possibile, né politici né intellettuali, che le dittature potessero essere sconfitte dall’interno. L’esperienza con il nazionalsocialismo tedesco e quella con il bolscevismo sovietico suggerivano altri scenari.
Nel 1953 Stato e società della Repubblica democratica tedesca si trovavano in una crisi profonda, che non risparmiava nessuno. Già nell’estate precedente il tenore di vita della popolazione era a livelli molto bassi e la situazione peggiorò ulteriormente con la decisione di perseverare nello sviluppo dell’industria pesante, obiettivo rinnovato nell’estate del 1952 per la “costruzione del socialismo”. Milioni di persone vivevano ai limiti della povertà, molti al di sotto. Così il governo comunista di Walter Ulbricht tentò di mettere ordine con il terrore: per reati insignificanti furono inflitte pesanti pene detentive. Nella prima metà dell’anno s’impennò il numero di quelli che scappavano dal Paese ma la dirigenza della Sed (il Partito socialista unitario) continuava come se nulla fosse: con durezza e senza scrupoli.
Dopo la morte di Stalin, il 5 marzo 1953, il nuovo gruppo dirigente sovietico a Mosca, che nella Repubblica democratica tedesca aveva l’ultima parola in tutte le questioni, cominciò ad analizzare la situazione. Si arrivò alla conclusione – su questo erano d’accordo tutti gli eredi di Stalin, nonostante le feroci discussioni tra loro – che la Repubblica democratica tedesca sarebbe andata in pezzi se l’esodo di quanti lasciavano il Paese non si fosse fermato. Ai primi di giugno, Ulbricht, il potente governatore di Mosca a Berlino Est, venne convocato nella capitale sovietica, dove gli venne comunicato che avrebbe dovuto annunciare immediatamente un “nuovo corso”: effettivamente, al suo rientro a Berlino, tra il 10 e l’11 giugno questo progetto si concretizzò. In sintesi, il “nuovo corso” prevedeva di annullare una gran parte della politica avviata dal 1952: la lotta contro le chiese, il ceto medio e i contadini venne (almeno per il momento) sospesa, sentenze motivate politicamente dovevano essere controllate e riviste, misure di politica sociale avrebbero dovuto migliorare concretamente la precaria quotidianità. Il partito venne completamente spiazzato da questo radicale cambio di rotta e per giorni, dal momento che non c’erano ulteriori istruzioni, si rivelò del tutto incapace di agire, come pure l’intero apparato statuale e di potere. La società, anch’essa colta del tutto di sorpresa, interpretò questa ammissione di aver commesso errori come una dichiarazione di bancarotta del sistema.
Già il 12 giugno in numerose città si registrarono assembramenti di fronte alle prigioni per chiedere il rilascio dei prigionieri politici: ed effettivamente, nel Brandeburgo e altrove, queste richieste vennero accolte! Dal 13 giugno la Sed, i sindacati la polizia e la Stasi dovettero fare i conti con richieste sempre più forti di dimissioni del governo e di libere elezioni. Si sciolsero le cooperative agricole costituite con violenza, i lavoratori minacciarono scioperi, si levò la richiesta per una rifondazione della Spd, il Partito socialdemocratico [nel 1946 in quella che era la zona di occupazione sovietica la Spd era stata obbligata a fondersi con la Kpd, il partito comunista, nella Sed, si trattò della cd. “Zwangsvereinigung”, unificazione forzata, N.d.T.] e di liberi sindacati. Ovunque si levava la richiesta di un trattato di pace con la Germania e le Potenze alleate e la ricostituzione dell’unità nazionale. Il 16 giugno scoppiarono grandi scioperi a Berlino Est, in particolare nei grandi e prestigiosi cantieri sulla Stalinallee e all’ospedale di Friedrichshain. Emittenti radiofoniche occidentali, soprattutto Rias, raccontarono gli eventi. Il 17 giugno la vita a Berlino Est si paralizzò ulteriormente: quasi tutti i cantieri e le grandi imprese erano in sciopero, centinaia di migliaia manifestavano nel centro della città. La scintilla si diffuse in tutto il Paese: in oltre settecento città e comuni manifestava, scioperava e protestava quasi un milione di persone. Alla fine, furono i militari sovietici a reprimere la rivolta. Obiettivi centrali erano libere elezioni, il ripristino dell’unità tedesca, nonché il miglioramento delle condizioni di vita. La rivolta non aveva alcuna possibilità di successo: metteva in discussione l’ordine del dopoguerra stabilito a Jalta e Potsdam.
A dozzine pagarono con la morte il loro coraggio, a centinaia furono feriti, decine di migliaia scapparono a Ovest; numerose le fucilazioni sommarie, oltre 1.800 tra uomini e donne vennero arrestati.
Le immagini di Berlino Est, nelle quali giovani attaccavano i carri armati con pietre e bottiglie, diventate presto famose in tutto il mondo, erano tutt’altro che normali in quel momento. Attacchi ai carri armati o ai soldati sovietici erano un fatto raro. Anche se le truppe sovietiche avevano represso la rivolta, sarebbe stato inopportuno di volerle rimproverare di aver agito con eccessiva brutalità: non c’era stato un bagno di sangue, la maggior parte dei morti e feriti era stata colpita da colpi di rimbalzo. I carri armati avevano marciato per lo più a passo d’uomo. «Ho avuto l’impressione» così efficacemente ribadì il Primo ministro inglese Winston Churchill il 19 giugno 1953 «che [i Russi] siano intervenuti, in ragione dei crescenti disordine, con apprezzabile discrezione».
La rivolta dominò per alcuni giorni sulla stampa mondiale e sostituì per un breve periodo la guerra in Corea dai titoli principali. Gli ambasciatori della Repubblica federale in tutto il mondo telegrafarono a Bonn, il mondo vide nella rivolta l’urlo tedesco per la riunificazione, la libertà e la democrazia. E la stampa mondiale era compatta nel sostenere che la rivolta, pur nelle tante e differenti valutazioni, alcune vicine a teorie del complotto, rappresentasse soprattutto una sconfitta per la politica sovietica e la dittatura comunista.
Nella Repubblica democratica tedesca, già poche ora dopo il suo inizio, la repressione veniva descritta come “tentativo di golpe fascista”, e ancora oggi c’è chi crede alla leggenda che la Sed diffuse nei tre decenni successivi. Nella Repubblica federale il 17 giugno venne proclamato “Giornata dell’Unità tedesca”, fino al 1990, e nel 1963 dichiarato “giorno nazionale di ricordo”, fino ad oggi.
Nel corso degli anni, questa festa, in cui negli anni Cinquanta milioni di persone nella Repubblica Federale ricordavano la mancanza di libertà nella “Zona”, è diventata una mera conquista sociopolitica. Quando dalla fine degli anni Sessanta in poi si è ripetutamente discusso di abolire la “Giornata dell’Unità tedesca”, i sindacati si sono dimostrati zelanti sostenitori della festa, perché i lavoratori non dovevano essere privati del giorno libero nel soleggiato giugno, come se fosse una conquista sociale. La rivolta popolare si era trasformata da tempo in una rivolta operaia, la rivolta nazionale in un evento di Berlino Est e la lotta per la libertà e l’unità in una lotta per miglioramenti sociopolitici e contro l’aumento delle norme e dei carichi di lavoro. Anche nella “vecchia” Repubblica federale, le interpretazioni della storia trasudavano quello che era di volta in volta lo spirito del momento, soprattutto quando si trattava dell’Est.
Solo con la caduta del Muro e l’apertura degli archivi l’insurrezione popolare fu riconosciuta, studiata e divulgata nella sua interezza. È stato necessario attendere il 2003, anno del cinquantesimo anniversario perché l’evento riacquistasse consapevolezza pubblica, per poi essere nuovamente in gran parte dimenticato; dieci anni dopo, il boom della memoria è divampato di nuovo per un breve periodo, senza conseguenze. Soprattutto, è sorprendente che oggi sia la Spd sia i sindacati ignorino ripetutamente questa rivolta popolare, anche perché di solito sono orgogliosi di simili eventi storici. Perché non hanno niente a che fare con il 17 giugno 1953?
Anche alla luce dell’attuale situazione in Europa, è utile sottolineare che le crisi non sono fenomeni tipici solo del nostro presente: c’è, inoltre, una costante, rappresentata dalla scelta di opporsi, di schierarsi senza chiedersi cosa sarebbe potuto succedere. Da una simile prospettiva, che arricchisce la storia, forse non si rende migliore il presente ma certo più orientato al futuro. La rivolta popolare del 17 giugno 1953 è uno dei grandi avvenimenti che merita di essere ricordato per la libertà e l’unità in tutta Europa.
[La traduzione dal tedesco è di Fernando D’Aniello.]