Nel numero 184 di Storia In Rete (ottobre 2021) il professor Paolo Simoncelli ha scritto una lunga e dettagliata recensione al volume “Il filosofo in camicia nera” (Mondadori), la biografia di Giovanni Gentile, tra i massimi intellettuali del Novecento, scritta da Mimmo Franzinelli.
di Paolo Simoncelli da Storia In Rete n. 184 – ottobre 2021
«L’assassinio di Gentile [il 15 aprile del 1944] fu un gesto miserabile, ancora più miserabile per le abbondanti giustificazioni politiche che fu subito facile dargli e si sono costantemente rinnovate, con tortuose variazioni, fino a noi». A scriverlo, non un qualche neofascista, ma Roberto Calasso (poco prima che morisse) in quello che è il suo ultimo, elegante volumetto, Memè Scianca; pagine sparse di memorie estratte dall’interno di un gruppo familiare nella Firenze dagli anni ’30 al dopoguerra; gruppo colto, antifascista, inevitabilmente ‘azionista’ (la madre di Roberto, Melisenda, sorella di Tristano, era figlia di Ernesto Codignola).
Calasso, ancora, a seguito di quell’assassinio ricorda l’arresto di suo padre, il noto storico del diritto, Francesco, assieme ai colleghi universitari Renato Biasutti e Ranuccio Bianchi Bandinelli (su cui la magistrale ricerca di Luciano Mecacci, La Ghirlanda fiorentina, 2014, edita non a caso dall’Adelphi di Roberto Calasso, ha acceso il faro come il più indiziato ‘mandante’ del delitto, al posto di Concetto Marchesi). Altri loro colleghi, tra cui Piero Calamandrei ed Ernesto Codignola sfuggirono alla cattura. I tre professori arrestati erano destinati, per rappresaglia, alla fucilazione. L’intervento immediato di uno dei figli di Giovanni Gentile, Benedetto, a nome della famiglia, e del console tedesco a Firenze, Gerhard Wolf, evitarono l’esecuzione; questi ottenne poi anche la scarcerazione degli ostaggi. Non sarebbe stato l’unico intervento (oggi si direbbe ‘umanitario’) di Wolf; ne beneficiarono anche ebrei e cospiratori a rischio di cattura, deportazione o esecuzione: per tutti, Bernard Berenson grande storico dell’arte, ebreo americano nascosto a Villa Serlupi che Wolff, mentendo, accreditò fuggito in Portogallo.
Ma nelle pagine del Filosofo in camicia nera di Mimmo Franzinelli (Mondadori, pp. 384, € 24,00), Wolf appare sfrangiato: silenziato quel suo intervento che portò ad evitare rappresaglie e a liberare gli ostaggi, viene citato fra i presenti al discorso inaugurale di Gentile, neo-presidente dell’Accademia d’Italia della RSI, tenuto a Firenze il 19 marzo ’44; come tramite della ‘catena’ di interventi privilegiati (e dunque socialmente urticanti) per far rientrare in famiglia il figlio maggiore di Gentile, Federico, ufficiale di complemento catturato in Francia dai tedeschi dopo l’8 settembre e internato nel lager di Wietzendorf; e come vano interlocutore per avere notizie del segretario della gentiliana casa editrice Sansoni (ritrovato poi tra i fucilati di una delle tante stragi di civili operate dai reparti tedeschi in Toscana); e insomma indicato con impalpabile sorpresa ancora tra i diplomatici tedeschi in servizio dopo la guerra (ambasciatore in Brasile) come a rimarcarne un’epurazione singolarmente mancata. Omesso ogni riferimento alla biografia del Wolf di David Tutaev, Il console di Firenze (Torino, Aeda, 1972), l’immagine che ne viene offerta risulta dunque frutto di una ‘selezione’ politica.
Analogo l’approccio ad un case study amaramente classico, occorso una ventina d’anni prima, che coinvolge un collega illustre di Gentile presso la Facoltà di Lettere di Roma: Giorgio Levi Della Vida (poi tra i 12 professori che rifiuteranno il giuramento di fedeltà al regime finendo sollevati dall’insegnamento). Aggredito da una squadra fascista, sottoposto all’umiliante ‘ricinatura’, il 31 ottobre ’22 scrisse a Gentile allora ministro della Pubblica Istruzione denunciando l’aggressione. «Il dignitoso appello di Levi Della Vida – scrive Franzinelli – rimane inascoltato». Pochi anni dopo, nel marzo ’26, Levi Della Vida, avrebbe subito una ‘censura’ dal rettore dell’Università di Roma (Giorgio Del Vecchio) per non aver voluto partecipare all’inaugurazione della riapertura al culto della cappella universitaria. Questa ‘censura’ sarebbe stata allora oggetto di una clamorosa interrogazione in Senato da parte di Gentile che il 27 marzo ne chiese conto al nuovo ministro della Pubblica Istruzione, Pietro Fedele. «Ci voleva il sen. Gentile a rivendicare i diritti di libertà di coscienza» ne scrisse tre giorno dopo «L’Avanti!». Il rettore avrebbe poi denunciato a Mussolini «l’atteggiamento del prof. Gentile […] stranissimo anche sotto l’aspetto politico». Ma questo ben noto e ben più rilevante intervento di Gentile in pro di Della Vida è omesso nel volume di Franzinelli. Altra ‘selezione’. Ovvero libera scelta di fatti da presentare e da non presentare; metodo, in sequenza, che connota unidirezionalmente il volume di Franzinelli.
E sì che l’autore è noto per un costante impegno civile, democratico, ovviamente antifascista, diretto proprio a ricercare quanto si nasconde dietro ‘verità ufficiali’ o di comodo, o a sostegno di gruppi politici egemoni…; a svelare quanto è occultato o, per comune decenza politica, ritenuto indicibile. A combattere insomma – e per questo da me personalmente apprezzato – contro l’occultamento della conoscenza; contro una ricostruzione storica a vantaggio (e correa) di regime. Un metodo coraggioso contro un nemico infido, finora combattuto; che sembra però esser diventato d’improvviso un comodo alleato.
I casi delle ‘selezioni’ appena visti sono infatti ricorrenti nelle oltre 300 pagg di questa nuova biografia di Gentile coinvolgendo col filosofo (ovviamente), tutta la cultura italiana che in quei decenni procedette, secondo tradizionale esibizione di sé, ad un continuo adattamento camaleontico, ad una diffusa ‘pratica nicodemitica’. Ovvero al ricorso alla liceità della simulazione e dissimulazione, originata nei conflitti religiosi del ’500 per sfuggire all’intolleranza di tutte le chiese. Teorizzazione studiata dalla fine degli anni ’30 del ’900 da un intellettuale di grande prestigio internazionale, Delio Cantimori, gentiliano tutto d’un pezzo, patriarca nel dopoguerra della storiografia marxista. Citato da Franzinelli solo tra quanti, già fascisti, simpatizzavano per i «gruppi di fuoco comunisti» (senza fornire in proposito alcuna, ambitissima, documentazione; omettendolo peraltro dall’Indice dei nomi). Al netto d’ogni opportunismo, solo un’altra e ben diversa strada, tutta teoretica, poteva condurre quei molti intellettuali fascisti e non fascisti (Cantimori, Spirito, Russo, Della Volpe… e il resto del gotha della grande cultura italiana di questo dopoguerra) ad abbracciare il marxismo: l’idealismo ‘attuale’ proprio di Gentile. Ma la scelta di Franzinelli di dedicare il suo studio solo al Gentile fascista, dunque dal 1922 al 1944, preclude la possibilità di ‘leggere’ l’origine storico-filosofica della sua adesione al fascismo, e anche la successiva comprensione delle scelte della cultura italiana. Tagliare le fondamenta non significa solo ridurre tutto all’‘opportunismo’ di Gentile (procedura peraltro assai pericolosa per le patrie lettere: se infatti con questa stessa ottica guardassimo alle mutevoli scelte degli intellettuali italiani di quel periodo, gli ‘opportunisti’ formerebbero un antico elenco telefonico); comporta – ben più – precludersi la possibilità di ‘guardare oltre’. E di leggere, con maggiore attenzione di quanto fatto secondo canoni rituali, il ‘Discorso del Campidoglio’ (24 giugno 1943) e Genesi e struttura della società (agosto-settembre ’43): dal relativo ‘combinato disposto’ non appare davvero nascosta la traditio (traditio latina: ‘trasmissione’) del testimone ai comunisti ora considerati unici eredi della tradizione storica nazionale. Il rifiuto, da parte della cultura marxista, dell’eredità storicista e neo-hegeliana, cui peraltro il marxismo aveva pieno titolo, ha comportato – a proposito del ‘guardare oltre’ – la crisi di un intero sistema di pensiero (hegeliano); un ‘vuoto’ culturale presto riempito da accrocchi sociologico-comunicativi che hanno determinato la voragine politico-ideologica del nuovo millennio.
Torniamo a ‘questo’ Gentile. Il volume di Franzinelli è dedicato per due terzi ai circa vent’anni del fascismo ‘istituzionale’ di Gentile (ottobre 1922 – settembre ’43) e per un terzo ai sette mesi della sua adesione alla RSI (settembre 1943 – aprile ’44). Intelligentemente e opportunisticamente necessario, tra le oltre 200 pagine dei primi due terzi del volume, ridurre a nulla più di una citazione la quindicinale (1928-1943) direzione di Gentile della Normale di Pisa; ovvero della fucina (e che fucina!) delle nuove leve della grande cultura italiana che, quando l’insegnamento era una vocazione anziché una casualità, ha poi ‘formato’ generazioni e generazioni di studenti, prima che un democratismo ugualitario e – non paradossalmente – elitario, disarticolasse quel ‘sistema’ come pericoloso ascensore sociale che aveva consentito di fuoriuscire, a danno dei ‘figli di papà’, dalla condizione di uno status sociale avverso. L’omessa attenzione alla direzione di quella scuola universitaria è funzionale all’immagine di un Gentile non solo fascista ‘opportunista’, ma fazioso.
Un’attenzione anche solo sporadica e casuale per quella sua direzione della Normale avrebbe infatti potuto essere rischiosa per il quod erat demonstrandum. E non si tratta del caso ormai classico e nient’affatto isolato della protezione dell’ebreo tedesco Paul Oskar Kristeller perseguitato nella Germania nazista e chiamato da Gentile come lettore di tedesco alla Normale (difeso strenuamente anche presso Mussolini, per tentare di evitarne poi l’espulsione dall’Italia a seguito della nefanda legislazione razziale). Si tratta di sostegno e copertura a quanti, proprio grazie alla libertà intellettuale garantita da Gentile in Normale, maturavano posizioni critiche, antifasciste, nient’affatto ignote al ‘direttore’ (senza tacere, s’intende, il licenziamento del segretario della Scuola, Capitini, per aver rifiutato l’iscrizione al Partito; caso però nient’affatto assimilabile a quello della sostituzione del vicedirettore Arnaldi). L’elenco dei ‘protetti’ dagli interventi di polizia è lungo, e noto a quanti allora studiarono in Normale, lasciandone testimonianza. Solo in un caso Gentile non intervenne, anzi guardò non senza compiacimento a un’espulsione ‘politica’: quella, nel ’35, dell’allievo altoatesino, nazista e pangermanista, Otto Hibler. Né va dimenticato che a sostituire Kristeller al lettorato di tedesco (dopo la breve parentesi di Werner Ross), Gentile in barba agli accordi culturali italo-germanici che nella fattispecie prevedevano che dovessero essere chiamati a insegnare solo «tedeschi del Reich», provocatoriamente vi chiamò Cesare Luporini, infischiandosi delle proteste del locale consolato tedesco. Di tutto ciò, dunque nullum verbum.
Non diversamente occorse per la sua direzione dell’Enciclopedia Italiana: chiamando a collaborarvi antifascisti, ebrei, refrattari al giuramento imposto nel 1931 ai professori universitari, Gentile si attirò le virulente critiche delle varie federazioni fasciste di Roma, Pisa, Firenze… e le conseguenti denunce anonime. Una direzione dell’Enciclopedia dunque non proprio ortodossa, le cui ben note vicende, in questo caso sono ricordate, almeno parzialmente, nel volume.
Affatto elusa è invece la questione della difesa del sistema universitario tradizionale dalle ideologiche ‘scienze nuove’ volute introdurre in accademia dal regime fascista (tema non proprio irrilevante in un volume dedicato a Gentile «barone accademico», Filosofo in camicia nera): né il Diritto corporativo né l’Economia corporativa riuscirono a sostituire l’antico Diritto costituzionale (allora detto ‘statutario’) e l’Economia politica classica, liberale. Gentile fu protagonista, con Santi Romano, del ‘sabotaggio’ proprio del Diritto corporativo (fin dal suo primo concorso), confinato poi come inessenziale appendice di materie giuridiche tradizionali; e con ciò ulteriori critiche e denunce da parte di vari organi dei Guf e di riviste politico-giuridiche fasciste piovvero su Gentile.
Un Gentile, questo, ingiustificatamente ignorato; e sì che avrebbe potuto e dovuto comportare un approfondimento, almeno un approccio, su quali e quante scuole di pensiero fra loro dialetticamente conflittuali si avessero allora, nelle varie Facoltà universitarie, nei campi più diversi e sensibili: del diritto, della letteratura, dell’architettura, dell’arte, della filosofia… In quello che avrebbe dovuto essere un ‘feudo’ gentiliano, l’Istituto di Filosofia, non fu chiamato a insegnare Filosofia della religione, nel ’40, Enrico Castelli, agli antipodi rispetto alla concezione immanentista gentiliana? E alla prestigiosa cattedra di Letteratura italiana, alla successione di Vittorio Rossi, nel ’37, non venne chiamato l’antigentiliano (ricordato unicamente come tale da Franzinelli) Natalino Sapegno? La Facoltà aveva votato la ‘terna’ degli idonei alla successione, con Luigi Russo al primo posto; venne chiamato invece Sapegno (secondo della terna), malgrado Gentile si fosse schierato per Russo, nonostante i «precedenti politici» (antifascisti) eccepiti contro Russo nel corso della discussione in Facoltà. Ne sarebbe seguita, nel dopoguerra, una clamorosa questione accademica che avrebbe visto Russo impugnare quella chiamata ritenuta fatta per meriti politici fascisti a proprio danno.
A proposito di questioni universitarie, veniamo alla vicenda del giuramento. Imposto – con la formula della fedeltà anche al regime fascista – da Balbino Giuliano allora ministro dell’Educazione Nazionale. Gentile era favorevole al ripristino dell’antico giuramento contenente la dichiarazione di fedeltà al re e allo Statuto albertino (la Costituzione liberale in vigore dal 1848) richiesto, al momento dell’Unità nazionale, ai professori delle Università degli antichi Stati italiani pre-unitari (da Napoli nel 1860-61 a Roma dieci anni dopo ecc.), man mano che queste venivano a far parte del sistema scolastico dello Stato italiano. La paternità dell’inserimento, nella formula del giuramento, della fedeltà al regime fascista, dalle bozze delle varie proposte della formulazione del testo, non risulta di Gentile. Che comunque fu favorevole a questo giuramento, anche per superare la frattura del 1925 tra firmatari del Manifesto degli intellettuali fascisti e di quello degli antifascisti (i quali ultimi, se professori universitari, erano tenuti fuori dalle commissioni di concorso); una sorta di ‘sanatoria’ utile oltretutto ad evitare i guai ben peggiori, profilati alla Camera, il 1° maggio ’31, dalle inequivocabili minacce di Lando Ferretti (capo ufficio stampa di Mussolini), di politicizzare alcune discipline accademiche (il diritto, la storia e la filosofia), tagliandone «i rami secchi».
Ancora questioni di particolare rilievo politico (e non solo): la legislazione razziale, la guerra e l’adesione alla RSI. Si è riconosciuto – difficile negarlo – il costante sostegno e protezione di Gentile, anche durante i mesi lividi della RSI, ad ebrei perseguitati; all’aumentare del numero di questi interventi si è iniziato ad eccepire che però a questa ‘umanità’ di Gentile non aveva fatto riscontro alcuna critica pubblica del razzismo. Non è così; intanto già teoreticamente l’antinaturalismo di Gentile ne impediva una qualsiasi concezione razziale (come agevolmente riconosciuto da studiosi come Gennaro Sasso, nient’affatto corrivi alla celebrazione di Gentile). Nel merito: l’Istituto per il medio ed estremo oriente (Ismeo, ricordato da Franzinelli, cui uno dei migliori studi di De Felice, Il fascismo e l’oriente. Arabi, ebrei e indiani nella politica di Mussolini, Bologna, 1988, avrebbe potuto essere utile), nacque con Gentile alla presidenza per una penetrazione culturale destinata a sostenere l’azione indipendentista dei popoli del Medio Oriente e in India. Un’azione che dichiarava fin dall’origine la contrapposizione tra razzismo tedesco (e inglese) e la storia, che oggi si direbbe ‘inclusiva’, della Roma imperiale, cristiana, proseguita dall’Italia mazziniana e fascista. Questa ‘inclusività’ avrebbe potuto costituire il ‘ponte’ geopolitico con quelle aree.
Così, puntualmente, nella prima manifestazione pubblica dell’Ismeo, il 21 dicembre ’33, Gentile contrappose l’universalità accogliente della Roma antica e cristiana ai «popoli piccoli e di scarse riserve che si chiudono gelosamente in se stessi in un nazionalismo schivo e sterile» (Hitler era al governo in Germania da neanche un anno). Dopo il ’38, e a proposito della guerra, un articolo di Gentile, Roma eterna (edito su una rivista a vasta diffusione, «Civiltà», il 21 giugno ’40), di cui Franzinelli riporta un passo ad esempio di retoricità, appare piuttosto un altro appello all’universalità di Roma, specificamente della «Roma cattolica», tanto da suscitare immediate speranze di pace: ma, se ne disse, di «una pace universale di Roma e non una pace di Berlino».
Consequenzialmente persino un articolo urticante di Gentile, Giappone guerriero («Civiltà» del 21 gennaio ’42), conteneva una dichiarazione esplicita, eppure non riportata malgrado si trovi subito prima di quella, unica citata da Franzinelli, sulla «civiltà dominatrice, che non è la civiltà capitalistica dell’oro e delle macchine, ma la civiltà dello spirito»; alle righe precedenti si poteva leggere: il novus nascitur ordo «riconoscerà il vantaggio della mutua intelligenza e della collaborazione fraterna delle razze diverse, nessuna delle quali è nata a servire». E sempre grazie alle attività dell’Ismeo e al relativo incontro con gli ecclesiastici di Propaganda Fide, a cominciare da mons. Celso Costantini, Gentile era stato ancora più esplicito, parlando pubblicamente, il 15 gennaio ’42, dinnanzi ad un uditorio internazionale (membri del corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, tra cui il nunzio in Italia, Borgongini Duca, ecc.) di «collaborazione a cui tutte le razze saranno chiamate alla fine del presente conflitto».
Finalmente l’adesione alla RSI. Intanto è ben noto, e ricordato da Franzinelli, che la prima scelta di Gentile subito dopo il 25 luglio ’43 fu – come non poteva non essere – monarchica. Solo dopo l’ignobile lettera di Leonardo Severi (ancor più ignobilmente fatta pubblicare sui quotidiani) in cui questi, dopo esser stato sempre ai vertici del Ministero della Pubblica Istruzione e capo di gabinetto di Gentile, lo accusava di aver servito la «tirannia», Gentile finì ‘dalla parte sbagliata’. Prima questione: Severi rispondeva ad alcune lettere di Gentile che aveva sollecitato dei favori al suo antico collaboratore. Per chi e per cosa? Dato che queste lettere di Gentile sono state pubblicate da anni e anni, vogliamo dire cosa contenevano, anziché soprassedere, come fatto anche in questo volume? Gentile aveva sollecitato a Severi alcuni provvedimenti in favore della Normale, tra cui la nomina di Cantimori alla vicedirezione (di fatto, direzione), dopo aver avuto assicurazione dal ministro dell’Educazione Nazionale, Biggini, circa il trasferimento della moglie di Cantimori, Emma Mezzomonti, insegnante di tedesco, da Napoli a Pisa (dove avrebbe dovuto andare e risiedere il marito). Diis altera visus! Ciò che successe dopo è conseguenza di questi atti (Gentile era o no un «barone accademico»?). Seconda questione: mentre Gentile consapevolmente si ‘comprometteva’ col fascismo repubblicano, cercando con una coraggiosa ma illusoria azione di mitigarne la violenza e mantenere una concordia tra le parti (con seguito di critiche tradizionali, ma ora anche di pericolose minacce), veniva catturato e internato in Germania il figlio Federico, senza che se ne avessero più notizie. Franzinelli ha dimostrato che da allora Gentile agì ricattato; che ad ogni sua vana richiesta di informazioni avanzata alle autorità del fascismo repubblicano e/o tedesche, ‘doveva’ seguire qualche suo intervento pubblico (con rilanci continui) diretto al sostegno di quel residuo di Asse. Questo aspetto che – forse per la prima volta nella sua completezza – emerge da un’attenta lettura incrociata di testi e lettere, offre dunque e direi finalmente la possibilità di comprendere l’altrimenti illogico (culturalmente, politicamente, ideologicamente…) passaggio di Gentile dal liberal-conservatorismo monarchico-fascista al radicalismo del fascismo repubblicano.
Ancora: questione della ‘correità’ con la persecuzione razziale nella RSI; correità (oggi ‘concorso esterno’?) imputata a Gentile ‘oggettivamente’, malgrado qualche altro concreto intervento, sempre più difficile e sempre più pericoloso, a favore di ebrei perseguitati. Ma – attenzione – Gentile non si macchiò mai di atti di propaganda e sostegno razzista (non richiesta, in questo caso, la prova di relative ‘pubbliche manifestazioni’?). A farlo volontariamente e pubblicamente furono invece, durante il fascismo sia ‘monarchico’ che ‘repubblicano’, giovani poi promossi ad alte cariche politiche e culturali nella Repubblica democratica e antifascista (nomi noti; omessi da Franzinelli immagino per comprensibile carità di patria).
Prima di chiudere (senza attardarci a indicare imprecisioni cronologiche, qualche lapsus, e l’opportunità di non citare per inedite, ex archivio, fonti già edite, come gran parte del carteggio di Gentile), ancora un richiamo di metodo. Sempre lo stesso. Applicato in questo caso alle ad una fattispecie minore, peraltro corrosiva: le ‘ricchezze’ accumulate da Gentile (ovvero emolumenti per i vari incarichi e direzioni scientifiche). Non ci siamo con la completezza delle fonti. L’avvocato Gaetano Casoni pubblicò nel dopoguerra il fascicolo Per gli eredi di Giovanni ed Erminia Gentile (San Casciano, Stianti, 1948): ignorata disamina dei ‘conti’ familiari, escussa a fronte dei rilievi mossi nel dopoguerra ai Gentile per ‘illeciti profitti di regime’. L’avvocato fa l’avvocato, d’accordo; non per questo aprioristicamente non si deve tener conto della ‘difesa’, né renderla nota. Ma pour cause: con quella documentazione il ridimensionamento delle ‘ricchezze’ sarebbe stato evidente.
Tralasciare o ignorare le fonti che si oppongono all’interpretazione sostenuta rivela altrimenti un disegno semplicistico di riaffermazione del controllo ideologico sulla ricerca storica. Antica tradizione da Stato assoluto, che è tale per il controllo della trasmissione della memoria storica, in particolare di quella dell’opposizione; per ‘costruire’ e tramandare quindi ‘una’ verità ufficiale, omogenea: come deve essere. Impedendo l’accertamento delle zone d’ombra e di circostanze nascoste (come sa bene Franzinelli che proprio queste – in altre occasioni – ha lodevolmente indagato).
Certo, screziature imprevedibili possono sempre capitare, e allora qualche guaio è inevitabile. Nello specifico, il rifiuto di esponenti ‘azionisti’ del CLN toscano di assumersi la responsabilità politica dell’assassinio di Gentile, fino anzi a deplorarlo. Ma come? Eccepire sull’esecuzione di un pertinace fascista, razzista ecc.? Se Gentile fosse stato quello profilato da Franzinelli, la posizione degli ‘azionisti’ toscani sarebbe ingiustificabile, politicamente inaccettabile, al limite della correità col nemico. Dunque per fortuna Gentile era ben ‘altro’; tanto da legittimare, sul suo omicidio, critiche che – caso unico – divisero la Resistenza toscana. «L’assassinio di Gentile fu un gesto miserabile…». Possiamo toglierci il dubbio che, scrivendo questo giudizio, Roberto Calasso sia stato un nostalgico ‘repubblichino’.