Per quei pochi che hanno memoria storica, i processi di Mosca evocano le grandi purghe che tra il 1936 e il 1938 portarono davanti al banco degli accusati migliaia di membri del partito comunista sovietico e non solo, accusati di trotskysmo, connivenza con il nemico, congiura contro il potere statale e così via. Anche molti italiani emigrati nel ‘paradiso comunista’ vennero travolti da questo rullo compressore che portava o davanti a un plotone d’esecuzione o, nei casi più fortunati, verso i gulag, dai quali la maggior parte dei condannati non ha fatto mai ritorno.
I nomi dei maggiori esponenti del partito bolscevico si trovarono a rispondere alle domande del procuratore Vyshinskij dopo un appropriato trattamento dei servizi speciali dell’NKVD (come allora si chiamava il futuro KGB). E così capi storici come Kamenev e Zinoviev confessarono di aver cospirato con la Germania e con Trotsky contro la loro patria, e perfino Bucharin, il figlio prediletto del partito, ammise le sue colpe.
Tre elementi giocavano per questo risultato. Le torture prolungate, la folle idea di rendere un ultimo servizio al partito e alla causa del comunismo, e il ricatto sui famigliari degli accusati. In particolare per Bucharin le minacce nei confronti della sua giovane e adorata moglie furono decisive.
Conclusione: confessioni lunghe e articolate di complotti e tradimenti mai avvenuti, perché, come ai tempi dell’Inquisizione, il cerchio del processo si doveva chiudere con l’ammissione di colpa dei malcapitati a beneficio di una stampa estera che ascoltava incredula con la stupita connivenza dei tanti intellettuali innamorati del nuovo dio comunista in terra.
Diceva Marx che la storia si ripete due volte: la prima in tragedia e la seconda in farsa (a proposito dei due napoleoni, il primo e il terzo). La farsa che si è prodotta in questi giorni in Bielorussia è però anche una tragedia, almeno sul piano personale, del povero giornalista coinvolto.
Con un atto di pirateria di Stato, il regime del dittatore Lukashenko ha dirottato un aereo Ryanair da Atene a Vilnius, fatto atterrare a Minsk, in Bielorussia, per arrestare il dissidente Roman Protasevich, reo di aver fondato un organo di informazione, Nexta, contrario al regime. Con lui è stata arrestata anche la fidanzata russa, Sofia Sapega.
Memore della lezione dei suoi maestri staliniani degli anni Trenta, oggi, 25 maggio, il giornalista è comparso con il volto tumefatto davanti alle televisioni per confessare di aver cospirato contro il suo paese, mentre la sua fidanzata veniva mantenuta agli arresti, con il plauso del governo russo, unica voce fuori dal coro di condanna internazionale unanime dell’accaduto.
Oggi però, a differenza di quanto avveniva ottanta anni fa, l’ideologia è morta e il re è nudo. Non gli resta che la forza del potere, ma la Storia ha visto sgretolarsi con il tempo poteri ben più forti di quello di Lukashenko.