Jane Austen fu tra le poche scrittrici in un mondo, quello tra Settecento e Ottocento fatto prevalentemente di scrittori “maschi bianchi”. Le sue forti protagoniste femminili colpiscono l’immaginario collettivo ancor oggi, e periodicamente cinema e televisione sfornano nuovi adattamenti dei suoi classici od opere a essi ispirate.
Certo, essendo ambientati durante l’era della reggenza, da cui prenderà nome il genere letterario a lei ispirato, il regency romance, tutti i protagonisti della Austena erano bianchi. Ma almeno fino a qualche mese fa sembrava sufficiente l’escamotage del blind color casting per rendere quel mondo più inclusivo, anche a costo delle inevitabili forzature come il caso di Bridgerton.
L’essere una donna che scrive di donne in un mondo di “maschi bianchi” facevano supporre che l’opera di Jane Austen potesse continuare a essere apprezzata senza incorre nelle ire dell’ideologia woke e della cancel culture. Eppure, anche per la scrittrice inglese è arrivato il momento di essere scrutinata di fronte ai nuovi autoproclamati tribunali del bene.
Il caso segnalato dal Telegraph il 18 aprile è quanto mai istruttivo di quale livello di paranoia abbia raggiunto l’ossessiva ricerca di vagliare le vite di persone vissute secoli fa secondo i parametri di oggi. Perché stavolta l’attacco a Jane Austen non arriva da una piccola folla isterica su Twitter o da qualche accademico iper-ideologizzato di un’università statunitense o britannica. No, stavolta l’attacco che porta a riconsiderare la vita e l’opera di Jane Austen sotto la luce di blacklivesmatter arriva proprio da chi dovrebbe curare l’opera della scrittrice, ovvero Lizzie Dunford, la direttrice del museo di Chawton ospitato nel cottage dove la scrittrice redasse Emma e Mansfield Park.
L’articolo esordisce proprio affermando senza temi di smentite: “Il museo dedicato all’autotrice rivaluterà le sue radici coloniali legate alla piantagione del padre sulla scia delle proteste di Black Lives Matter”.
Ma non è solo la colpa del padre, il reverendo George Austen, a ricadere sulla figlia. C’è anche il fatto che Jane Austen prendesse il tè, che nelle sue opere i momenti in cui si prende il tè, il fatto che il tè in questione fosse zuccherato. E che per di più indossassero abiti di cotone. Tè, zucchero e cotone legati indossolubilmente al colonialismo britannico, quello che per alcuni accademici britannici originari delle ex colonie del Commonwealth renderebbe Churchill peggiore dei nazisti.
Leggiamo infatti dal Telegraph: “Prendere lo zucchero nel tè e indossare il cotone collegano anche l’autrice ai prodotti dell’impero e della tratta degli schiavi, hanno detto gli esperti, e questo contesto più ampio sarà riesaminato al museo.”
A leggere tra le righe l’operazione ha chiaramente un appeal promozionale piuttosto che ideologico. Rendere il piccolo museo più in linea con le nuove tendenze e meritare qualche spazio sui giornali
Infatti si precisa poi che il reverendo Austen fu solo amministratore fiduciario di una piantagione ad Antigua per conto di un suo amico. E questo tre lustri prima della nascita di Jane. E la stessa Jane, conclude l’articolo “apparteneva a quel gruppo progressista della società da cui provenivano gli attivisti antischiavisti William Wilberforce e Thomas Clarkson. Rivela la sua coscienza sociale nelle sue letture e nei suoi scritti.”
Un’operazione commerciale che per assecondare una frangia estremista. Tanto che sullo stesso Telegraph poche ore dopo compare un fondo firmato Emma Whelan dove si dice senza tanti complimenti che “Il ragionamento dietro i legami della Austen con la tratta degli schiavi è più che assurdo” e che allo stesso tempo se non bisogna ignorare la storia e il contesto di un autore, ma “indagini contemporanee come queste spesso equivalgono a un atto di di moralizzazione e castigo una figura del passato”.
Insomma, come ben sanno i lettori di Iconoclastia, è evidente che il tentativo del museo di Chawton di correre dietro alle frange più estremiste dell’ideologia woke per farsi un po’ di pubblicità gestito in questo modo finirà per danneggiare l’immagine e la percezione pubblica di Jane Austen.
E anche la scrittrice inglese potrà presto raggiungere Omero e Shakespeare nell’Olimpo dei grandi scrittori cancellati.