L’arte contemporanea è diventata pura speculazione, i musei sacralizzano il dissacrante e la nostra è la prima civiltà della storia che ama il brutto. Dialogo con Angelo Crespi: “ostinatamente, mi affido alla bellezza, al talento, al senso”
di Davide Brullo da L’Intellettuale Dissidente del 1° aprile 2021
L’arte è una questione di postura, impone una poetica della postura; ora pare, piuttosto, posa, impostura. Per dire: di fronte a un quadro non ci si inginocchia più; il museo, d’altronde, non è una chiesa. Fatto curioso: il museo ‘sacralizza’ l’arte – come il teatro dà a quell’atto un palco –, ma dal museo il sacro è escluso, eluso. Le opere si guardano con interesse e con curiosità, eventualmente si ammirano. Al loro cospetto non ci si inginocchia più, le gambe non precipitano. Di questo mutamento di postura, di posto nella ruota del mondo e del senso – da parte dell’osservatore, e dunque dell’artista – ha scritto, tra l’altro, Edgar Wind: nell’era dominata dalla scienza onniveggente – cioè, che delinea ogni fare, riducendo il mistero a misura, ed è faro, legge –, l’arte “perde il suo legame diretto con la nostra esistenza: diventa una splendida superfluità” (Arte e anarchia, Adelphi, 1968). Naturalmente, le cose sono più complicate di così: il ‘superfluo’ può dare accesso, appunto, allo splendore, e il potere taumaturgico dell’arte – sacro – azzanna alle spalle, fuori dai recinti costituiti, dove la bellezza è latitante. Oggi, semmai, si venera il brutto, l’arte esiste se assurge a ‘caso’, e nel caos delle forme c’è chi specula sottraendo all’opera il suo unico valore: volare, valicare l’ovvio, fendere l’oggi, squarciare con inedita innocenza le evidenze, riconoscere i segni, dare senso ai sogni, assurgere a rischio, a scelta non più derogabile.
In questo contesto, il lavoro di Angelo Crespi – già autore di Ars Attack. Il bluff del contemporaneo, 2013, e di Costruito da dio. Perché le chiese contemporanee sono brutte e i musei sono diventati le nuove cattedrali, 2017 – è fondamentale e il suo libro, Nostalgia della bellezza (Giubilei Regnani, 2021) è un manuale che aiuta a capire il sistema dell’arte contemporanea, a difenderci dal brutto, a imbracciare una forma di vita, una ascesi alla meraviglia.
Con quieta violenza, così, Crespi scarnifica “l’arte sociale”, che “non produce più opere, bensì contenuti che prescindono dalla forma in cui sono fissati”; smonta “la riscrittura ideologica” perpetrata con grottesche contraddizioni dalla cosiddetta cancel culture; scardina il gioco – esteticamente al massacro – del mercato dell’arte (“C’è nell’arte contemporanea una forte propensione alla speculazione finanziaria. Una cosa che non si era mai vista”). Tutt’altro che passatista o devoto alle rovine del tempo che fu – “tradizione non significa la ripetizione di stili e stilemi… non è adorare la cenere, bensì conservare il fuoco” –, Crespi richiama l’artista al proprio ruolo di campione del bello, di costruttore di forme; egli è colui che tenta “in definitiva di frenare l’arrivo dell’Anticristo”. Il suo libro, allora – costruito come una vasta intervista – ha la tensione della cavalleria e della lotta: è un libro marziale. In effetti, è proprio nella caduta, nel fallire felice, la ragione dell’ascesa, l’astuzia blu della commozione, direbbe Rainer Maria Rilke, poeta caro a Crespi. Ed è bello, perfino, che una battaglia simile la compia chi vive nella spregiudicata generosità, chi all’ostentazione predilige la poesia, alla posa la disciplina, al clamore il pudore, perché arde ciò che è nascosto.
Si ha nostalgia di ciò che abbiamo perduto per sempre. La bellezza, allora, ci è preclusa?
Nel libro cerco di spiegare la questione nel modo più semplice possibile. L’arte contemporanea concettuale, prediligendo i concetti alla forma, si nega la possibilità della bellezza che in un’opera splende attraverso la forma. Ed è l’unica cosa che conta, la forma, anche in poesia. Mi viene in mente Gottfried Benn quando parla di «morale della forma» indicando il compito dell’artista e precisando che nell’arte «non decide il senso bensì la forma». Lo stesso pensiero echeggia in Hermann Broch: «la verità solo nella forma»; e in Eugenio Montale: «In poesia/ quello che conta non è il contenuto/ ma la forma». Aggiungo che non ho nessuna tentazione passatista e provo nostalgia per il futuro. E mi piace questo ossimoro proprio per la costituzionale paradossalità che produce uno stupore cognitivo che a sua volta induce alla riflessione o, almeno, a una seconda attenta lettura della frase che lo contiene. Provo nostalgia per la bellezza futura che non avremo. Di fatto siamo la prima civiltà che ama il brutto. Siamo passati da un sistema delle belle arti a un sistema delle brutte arti: è una questione diabolica.
Conosco il tuo amore per Brodskij. Se “l’estetica è la madre dell’etica” come tradurre questo concetto in una poetica del vivere, e dunque in una politica?
Credo prediligendo la forma al contenuto, perché solo attraverso la forma possiamo raggiungere la bellezza che è presagio di eternità in un frammento. Ma c’è anche la questione della verità, come dice Heidegger riflettendo su Rilke, cioè l’idea che al poeta e all’artista sia affidato il compito di dire le cose come neppure le cose sapevano d’essere. Cioè di dire la verità delle cose. Anche se poi Heidegger aggiunge che lo splendere della verità è la bellezza. Quanto a Brodskij, come Benn, ha in mente una morale della forma; l’estetica è la madre dell’etica, proprio perché se non tutto è permesso in estetica, poiché lo spettro dei colori è determinato, non tutto è permesso in etica. Aggiungo: essendo il giudizio estetico bello/brutto il primo giudizio, istantaneo, che ci facciamo aprendo gli occhi sul reale, mentre il giudizio etico buono/cattivo giunge dopo, a seguito di una riflessione, non posso che dare credito a questo giudizio legato alla vista che di tutti i sensi è quello più connesso al pensiero. E di fatto noi abitiamo il mondo, guardandolo. E questo surplus di credito che dò alla Bellezza, percepibile d’incanto aprendo gli occhi, perché capisco subito se una cosa è bella o è brutta, e subito dopo capisco anche se mi piace o non mi piace… questo surplus di credito alla Bellezza mi fa propendere per affidarmi a essa, e in questo sta la sua natura eminentemente politica, perché produce senso, aggrega là dove l’entropia invece disgrega, spinge a una imitazione positiva, crea di fatto civiltà in luogo di barbarie.PamphletGeorge OrwellTutta l’arte è propaganda!
Intendo: i fenomeni artistici sono connessi a una visione del mondo. L’impressionismo, la Pop Art, l’espressionismo, il “realismo socialista”… Cosa rappresenta il nostro tempo? Lo sgunz o il caos sovrano? E dove si tenta, si scava, si trova la grande arte, oggi?
Per quanto riguarda la prima parte della domanda faccio fatica a rispondere. L’arte visiva non è riuscita a rientrare nel proprio alveo dopo le avanguardie di inizio Novecento e si è fatta “avanguardismo”, per cui lo scioccante, il sorprendente, l’ingannevole e il contradditorio sono abbracciati come fini in sé; con l’avanguardismo è arrivato il fraintendimento forzato, «un fraintendimento aggressivo, inflazionato, pretenzioso» arguiva Clement Greenberg; le opere ready made e concettuali diventano opere solo grazie al contesto di arte in cui vengono presentate, un contesto culturale e sociale ma non estetico o artistico; è un paradosso ma oggi un’opera diventa arte se è esposta in un museo e non, essendo arte, è esposta in un museo. Questo determina, forse per la prima volta nella storia, uno scollamento definitivo tra la percezione dell’arte della gente comune e la percezione del sistema dell’arte che è una sorta di casta; lo spettatore fa fatica a comprendere un’arte che è facile da fare e difficilissima da capire, a cui per ironizzare ho dato il nome “sgunz”, e quanto più questa comprensione viene a mancare, tanto più gli specialisti la considerano arte. Considerando che per l’arte concettuale basta l’idea e non conta la realizzazione, io propendo invece per l’arte che l’artista fa con le proprie mani, poiché non esiste altra arte di quella che si fa mentre si fa, e reputo uno sciocchezza pensare appunto che basta l’idea; per questo considero – al pari di Greenberg – la pittura come l’unica vera avanguardia, reputo i pittori come gli ultimi che assolvono la funzione di katéchon, cioè di “trattenere” il decadimento o ritardarlo, di impedire l’espandersi del brutto, in definitiva di frenare l’arrivo dell’Anticristo; assolvono questa funzione per mezzo della fede, la fede nella bellezza, nella perfezione, nel senso.
Che cosa guida il mercato dell’arte?
Il mercato dell’arte, per alcune caratteristiche che spiego nel libro, è un oligopolio in cui pochi, ricchissimi player possono decidere i prezzi, farli crescere, speculare, ottenere ricavi straordinari, a scapito dei veri collezionisti o del semplice amatore. Inoltre, per la prima volta nella storia, è in atto una finanziarizzazione per cui si compra arte, non per staccare un dividendo estetico, ma per ottenere ricavi economici nel breve termine. Ciò causa anche un radicale mutamento delle opere d’arte che, al pari delle azioni, devono diventare fungibili così da poter essere scambiate velocemente e produrre utili. In questo senso, il fattore determinante, esiziale diventa il prezzo, tanto che l’arte antica costava perché valeva, l’arte contemporanea vale perché costa.
Di arte si parla se diventa un fenomeno ‘sociale’, se ‘provoca’, se è un ‘caso’. L’impegno premia più dell’impegno formale, la grandezza in sé pare impossibile da valutare, ‘genio’ è concetto da bandire: è così? Perché?
È così, ma non saprei individuare la causa prima se non nel tramonto di una civiltà, sottoposta alle sferzate del relativismo e del nichilismo. Oggi nell’arte contemporanea è bandito qualsiasi tentativo di grandezza, di complessità formale, ed è guardato con sospetto il talento, l’allenamento, e ogni tensione alla trascendenza o al divino. Forse perché non siamo più capaci di immaginare cose grandi, ci accontentiamo delle piccole, preferiamo le pause alla musica. E fa sorridere, nel mentre della decadenza, lo spreco del termine “genio” per indicare invece a sproposito artisti qualsiasi: ripenso a Robert Musil quando ne L’Uomo senza qualità notava divertito che anche un cavallo oggi può essere definito un genio e a maggior ragione uno street artist come Banksy.
Che senso hanno, oggi, i musei? In assoluto: come si equilibra, in un artista, la necessità di una ‘tradizione’ alla necessaria certezza di dover percorrere territori incontaminati, altri?
I musei, anche dal punto di vista simbolico, sono le nuove cattedrali. Abbiamo affidato la salvezza della nostra anima all’arte, sembrandoci la religione un retaggio del passato, così abbiamo costruito migliaia di nuovi musei nel mondo immaginando siano il contenitore delle vestigie più importanti da tramandare ai posteri. A parte questo, nel tempo della secolarizzazione i musei servono a risacralizzare in altra forma l’arte, perfino quella di tipo religioso, però solo nella sua dimensione immanente, quindi a risacralizzare arte nata per dissacrare e a farla esistere. Essi sono il packaging lussuoso dell’arte contemporanea, la carta dorata che riveste il cioccolatino, ed ora nel tempo della peste tremendamente vuoti, cenotafi.
Nel tuo libro, a un certo punto, avvicini il pittore al poeta: perché?
Perché contrariamente all’artista concettuale che demanda le proprie opere ad altri e si crogiola nell’idea che basti l’idea, il pittore, al pari del poeta, si fida della propria mano, dei moti della propria mano per creare. E se è sincero, se ha talento, se si è allenato, l’opera riflette tutto questo e può, rare volte, raggiungere la perfezione, come nella rovesciata di Ronaldo, che è poi la bellezza, quando cioè nell’opera nulla può essere aggiunto e nulla tolto senza che se ne accresca inutilmente o peggio se ne diminuisca l’insieme. Il pittore ha la possibilità di essere libero totalmente nel mentre fa la propria opera, avendo di fronte – come avrebbe scritto T. S. Eliot – un terreno inesplorato in cui ci si inoltra con un equipaggiamento sempre logoro, poiché le parole che abbiamo imparato sono utili per spiegare solo quello che già conosciamo. Questo territorio inesplorato è il regno della possibilità, delle infinite possibilità per cui iniziando il verso non sappiamo dove ci condurrà la rima, tanto che il poeta può arrivare a dire cose che neppure sapeva, come neppure le cose sapevano di essere: è l’aspetto profetico della poesia e dell’arte in generale.