Maria regina di Scozia di Josie Rourke potrebbe piacere a Donald Trump. A dire il vero, non ci è dato di conoscere con precisione i gusti del presidente Usa – e, forse, i film di rievocazione storica non rappresentano proprio il genere preferito dell’ ex mattatore del reality show The Apprentice – ma, di sicuro, il campione planetario della scorrettezza politica apprezzerebbe gli effetti involontari e i cortocircuiti, tra il comico e il tragico, generati da questa pellicola.
di Massimiliano Panarari da La Stampa del 2 febbraio 2019
Il film ri-racconta la storia della cattolica Mary Stuart (o Maria Stuarda, 1542-1587), già moglie del re di Francia e regina di Scozia, riconosciuta come la sovrana d’ Inghilterra dai legittimisti che avversavano la protestante Elisabetta I Tudor; due teste coronate che erano cugine, e donne di potere in un’ epoca piuttosto misogina (per usare un eufemismo).
Il film, interpretato dalle pur brave Saoirse Ronan e Margot Robbie, rappresenta un prontuario idealtipico, pieno di esagerazioni e parossismi, della correttezza politica secondo la versione dominante nell’ industria mediatica anglosassone. Che produce però, appunto, delle conseguenze controproducenti (a partire, e non è cosa da poco, dall’ inverosimiglianza) e finisce per tradursi in un vero e proprio teatro dell’ assurdo. Quando viene applicato forzosamente, come in questo caso, l’ orientamento politicamente corretto appare sterilmente «buonista», e non risulta utile alla (giusta) causa che vorrebbe servire.
Nel ripercorrere un momento fondamentale delle guerre di religione e di potere nell’ Europa della prima età moderna, la pellicola si prende una tale quantità di strampalate licenze da vanificare in (buona) parte la finalità di intrattenere narrando, al contempo, una pagina di storia.
Senza eccedere nello spoiler, si può dire, per esempio, che le corti delle due sovrane in lotta pullulano di lord di colore, e nero è l’ ambasciatore di Londra in Scozia. Dove il liutista e segretario privato-consigliere di Maria, l’ italiano Davide Rizzio, si trasforma in una specie di poeta-menestrello e amico del cuore portoricano e gay; e la cinquecentesca «regina papista» declama tutta la propria tolleranza e comprensione nei confronti dell’ omosessualità.
Ambedue le corti sono multietniche, e la prima dama di compagnia di Elisabetta (che, impropriamente, corrisponderebbe alla nobildonna Bess di Hardwick) è cinese. E la feroce, acerrima rivalità tra le regine viene convertita in una sorta di sorellanza a distanza, nel nome del protofemminismo e di un cripto-bilanciamento di genere per cui le due donne, lungi dall’ odiarsi e dal tramare l’ una contro l’ altra, sarebbero state le vittime del modello maschilista e patriarcale e di una serie di intrighi tutti al maschile.
Al punto che, ciliegina sulla torta, la Tudor (resa terribilmente simile alla Regina di cuori di Alice in Wonderland di Tim Burton) versa delle lacrime per la cugina «amica-nemica» prossima all’ esecuzione – mentre la storia ci trasmette la memoria della sua brutalità verso la Stuart, il cui corpo esanime, dopo la decapitazione, venne ostentato davanti alla folla.
Si tratta, perciò, di una pellicola esemplare dei guasti e delle gabbie del politicamente corretto quando si fa ideologismo, o conformismo – come in diversi ambienti dello show business americano -, e perde così la sua funzione importante di correttivo e anticorpo rispetto a un brutto senso comune, alla violenza verbale e alle varie forme di egemonia sottoculturale imperanti da tempo.
E si presenta pure alla stregua di un’ inconsapevole testimonianza cinematografica della cultura postmoderna, a cui il politically correct risulta collegato intimamente, che nel suo rigetto delle verità assolute finisce per rinnegare anche la verità storica. E, si sa, il troppo stroppia.