Premetto di essere intimamente convinto della falsità degli alibi ideologici con cui vengono giustificate le guerre del XX Secolo, alibi quasi sempre creati dai vincitori per far credere di essere stati essi stessi “i buoni”, attribuendo ai nemici il ruolo di “cattivi”. Quindi – a mio modo di vedere – la Seconda guerra mondiale non fu una guerra fra “nazisti” e “democrazie”, quanto piuttosto una guerra della Germania contro l’Inghilterra e gli USA, con la Russia prima alleata di Berlino e poi di Londra e di Washington.
di Michele Rallo, da “Le Opinioni Eretiche” del 14 novembre 2014
Sono parimenti convinto, peraltro, che la postuma attribuzione di torti e ragioni alle due parti sia del tutto arbitraria e fuorviante. Tanto per non restare nel vago, la Seconda guerra mondiale nacque non perché Hitler volesse invadere mezza Europa, ma perché voleva semplicemente riprendersi quei territori che – come Danzica e la Prussia occidentale – erano stati sottratti alla Germania con i trattati di Versailles. Quindi, riassumendo: 1) non sono un nemico della Germania; 2) non credo giusto che la Germania debba pagare eternamente “debiti di guerra” per sue presunte (e certamente non esclusive) responsabilità nello scatenamento e nella conduzione dei conflitti mondiali del secolo scorso.
Ho fatto questa lunga premessa perché le recenti celebrazioni per il 25° anniversario dell’abbattimento del muro di Berlino (9 novembre 1989) hanno fatto tornare d’attualità alcune vecchie polemiche sul debito pubblico tedesco. Vorrei – sull’argomento – dire anche la mia opinione; un’opinione, come al solito, “eretica”. Naturalmente, sarò costretto a scomodare la Storia, sia pur procedendo a grandi linee.
Dunque, dopo il Primo conflitto mondiale la Germania venne condannata al pagamento di “indennità di guerra” per 130 miliardi di marchi del tempo, quando il PIL tedesco di un intero anno non arrivava – prima della guerra – a 50 miliardi. A questa cifra astronomica, poi, si aggiunsero altre somme, dovute per i prestiti contratti con soggetti finanziari americani per far fronte alle indennità di guerra (le obbligazioni Dawes e Young). Debiti su debiti, in sostanza, con l’aggiunta dei relativi interessi. Naturalmente, la Germania non poté pagare che una piccola parte di questo incommensurabile debito, fino a quando non giunse al potere un certo Adolf Hitler, che smise di pagare le rate e prese a stamparsi una sua moneta, senza farsela prestare dalle banche.
Altro capitolo: 1953, dopo la Seconda guerra mondiale. La Germania era oberata da nuove indennità di guerra, cui si sommavano i vecchi debiti richiamati in vita, i nuovi debiti contratti con l’America (e con le sue banche) per la ricostruzione, nonché le “riparazioni” per l’ultima guerra, che l’Unione Sovietica aveva chiesto (e ottenuto) venissero rifuse sùbito. Detratto quanto già pagato, la Repubblica Federale tedesca si trovava a dover fronteggiare “debiti esteri” (si noti il plurale) pari al 100% del suo PIL. Ma, siccome i poteri forti avevano deciso che la Germania dovesse riprendersi (anche per evitare che venisse fuori un secondo Hitler), una provvidenziale conferenza dei 20 principali paesi creditori, riunitasi a Londra nel ’53, stabilì delle forti agevolazioni. Il totale venne ripartito in due distinti settori: il primo comprendeva i debiti pre-Hitler e i nuovi debiti contratti dopo l’ultima guerra; il secondo includeva le “riparazioni” della Seconda guerra mondiale, al netto di quanto già pagato all’URSS ed ai paesi del Patto di Varsavia. Orbene, per il primo settore venne stabilita una riduzione del 50% ed una benevola rateizzazione trentennale del residuo. Per il secondo settore – quello delle riparazioni – venne deciso di sospendere il pagamento fino alla ipotetica riunificazione della Germania. È appena il caso di osservare che, se allora i paesi creditori avessero invocato il rigore ed il rispetto delle regole, la “locomotiva d’Europa” sarebbe deragliata fin dal lontano 1953.
Ma non è finita, perché manca ancòra un capitolo, quello di cui oggi si celebra il venticinquennale. 1989, caduta del muro di Berlino; 1990, riunificazione della Germania. Si verificavano le condizioni previste dal trattato di Londra: la Germania si riunificava, e quindi il governo tedesco doveva mettere mano al portafoglio e pagare i debiti di guerra. E, invece, cosa succedeva allora? Succedeva che il Cancelliere del tempo – Helmut Kohl – si precipitava a spiegare che l’unificazione aveva costi altissimi (ed era vero) e che, se si fosse obbligata la Germania a rispettare le regole (quelle del ’53), l’economia tedesca non avrebbe potuto far fronte all’emergenza e l’intera nazione sarebbe stata preda di una crisi profondissima. Altro deragliamento in vista, dopo quello di quarant’anni prima. Ma, anche questa volta, gli interessi degli Stati Uniti si trovavano a coincidere con quelli della Repubblica Federale Tedesca, e quindi sulla scena internazionale veniva lanciata una convincente campagna buonista: la Germania – adesso profondamente intrisa di puri sentimenti democratici – doveva essere aiutata a superare il momentaccio, e perciò i suoi debiti di guerra dovevano essere cancellati per intero. E naturalmente, obbedienti alla voce del padrone, i paesi creditori – quasi tutti europei – si affrettavano ad allinearsi. Ancora una volta, quindi, con tanti saluti al rigore, alle regole, alla correttezza, agli impegni inderogabili, ai patti liberamente sottoscritti ed agli austeri princìpi della contabilità internazionale.
Perché ho ricordato tutto questo? Per semplice esercizio polemico? Per poter contrapporre il fesso buonismo degli europei all’odioso rigore di madame Merkel e del suo insopportabile ministro delle Finanze? Forse si, ma solamente in parte. Ciò che mi preme sottolineare, invece, è una serie di dati politici: 1) il costo dell’unificazione tedesca lo ha pagato l’Europa, compresa l’Europa meridionale; 2) l’unificazione ha consentito alla Germania di diventare l’economia trainante dell’Unione Europea; 3) la Germania ha utilizzato la sua posizione di forza per imporre una politica che ha sostanzialmente condotto al fallimento i paesi dell’Europa meridionale.
Ora, se è vero – com’è vero – che l’Europa ha dovuto fare, nel ’90, un grosso sacrificio per consentire che le regioni dell’ex Repubblica Democratica Tedesca venissero strappate alla povertà ed integrate nella ricca economia della Repubblica Federale, sarebbe stato logico che, poi, la Germania riunificata ricambiasse il favore: che facesse a sua volta un sacrificio economico per consentire all’Europa tutta di raggiungere un benessere economico pari al suo. Invece, è avvenuto l’esatto contrario: la Germania della maestra Merkel ha scoperto improvvisamente il rigore (quel rigore che aveva accuratamente evitato nel ’53 e nel ’90), e con quel rigore ci ha condotto al disastro.
A proposito: nell’orgia di rievocazioni di questi giorni – con giornali e televisioni che gareggiano nel deprecare la “dittatura comunista” della RDT e nel magnificare “l’anelito di libertà” della RFT – nessuno ha ricordato che Angela Merkel è cresciuta nella Germania dall’est, ha militato nell’organizzazione giovanile del partito comunista e poi nella ristretta cerchia dell’Agitprop (Agitazione e Propaganda), e solamente dopo la caduta del muro di Berlino ha aderito al “pensatoio” democratico Il Popolo Siamo Noi. Corsi e ricorsi storici, direbbe Vico. Mi sembra di rileggere la biografia di certi illustri campioni del neo-antifascismo italiano, allevati e cresciuti nelle confortevoli braccia del regime fascista.