L’evento è straordinario. Straordinari i risultati tecnici raggiunti e la lezione giuridica e politico-culturale impartita dalla vicenda. Oggi alla Sapienza di Roma, alla presenza del Capo dello Stato Sergio Mattarella, saranno mostrati i risultati definitivi del restauro filologico del grandioso murale dell’Aula Magna, L’Italia fra le arti e le scienze, affrescato da Mario Sironi nel 1935 in occasione dell’inaugurazione della nuova Città universitaria. Un murale davvero “svelato” (come dal titolo del catalogo, Sironi svelato.
di Paolo Simoncelli da Avvenire del 26 novembre 2017
Il restauro del murale della Sapienza, a cura di Eliana Billi e Laura D’Agostino, Campisano editore) grazie al coraggio intellettuale dell’Università di Roma e finalmente al rispetto del rigoroso dettato normativo di tutela dell’integrità dell’opera d’arte, altrimenti violata dal dopoguerra a oggi. Sironi fu fascista, come l’architetto Piacentini e gran parte degli altri architetti e artisti chiamati a collaborare all’edificazione e alla decorazione della nuova, avveniristica Città universitaria di Roma; come lo furono tanti intellettuali del tempo. La realizzazione di quell’affresco mozzafiato, realizzato nel momento d’inizio della guerra d’Africa e del “consenso” sociale al regime, doveva condividere con la Sistina la sorte della censura. I nudi michelangioleschi, imbarazzanti per la nuove temperie tridentina, furono scalpellati e imbraghettati da Daniele Ricciarelli da Volterra; nell’affresco di Sironi, simbolo imbarazzante del caduto regime, vittorie alate, cavalieri, aquile, data secondo l’era fascista dovevano subire un intervento censorio di adeguamento del passato al presente.
Due diverse commissioni nominate dai primi rettori del dopoguerra, Caronia e Cardinali, nel 1947 e ’50, pencolarono tra l’idea dell’oscuramento totale o dell’interpolazione censoria che prevalse grazie a Piacentini (incredibilmente membro di entrambe le commissioni). L’incarico ufficiale dell’intervento censorio sull’affresco fu affidato al pittore Carlo Siviero ma da ricerche ora presentate da Eliana Billi sembrerebbe che l’autore materiale sia stato un altro pittore comunque a lui legato. Sparirono aquile e cavalieri, ma fu anche mutata la tonalità generale e il profilo dei volti effigiati da Sironi che non accettò quelle manomissioni né mai volle rivedere il suo affresco così deturpato. Anni fa fu avviata un’intensa collaborazione tra la Sapienza e l’Istituto centrale del restauro (ICR) per ripristinare l’autografia originale di quell’opera monumentale (ne parlò a lungo “Avvenire” nell’estate 2015). Era il seguito di studi già avviati nel 1985 e nel ’94 dai maggiori esperti di Sironi come Danesi Squarzina, Lux, Coen… che con Giuseppe Basile e tecnici dell’Enea certificarono la possibilità materiale del restauro filologico. Oggi quella storia ha termine: sotto la responsabilità scientifica di Marina Righetti (direttrice del Dipartimento di Storia dell’arte) e di Gisella Capponi (direttrice dell’ICR), il restauro è concluso. Eliana Billi della Sapienza e Laura D’Agostino dell’Istituto centrale del restauro hanno diretto i delicati lavori: le foto solo in bianco e nero dell’affresco originale da rispettare hanno costituito un problema risolto tecnicamente grazie ai nuovi supportanti per solventi solo superficiali, capaci di asportare la superficie del rifacimento senza danneggiare l’originale sottostante; la cura e l’attenzione filologica hanno consentito di ripristinare non solo l’evidenza della simbologia, ma la cromaticità dell’intera opera che risulta sorprendentemente dai colori più accesi, saturi e variegati rispetto all’interpolazione che aveva spento e opacizzato l’autografia di Sironi.
Ora quel capolavoro torna a essere di Sironi, così come era stato concepito; e così come imposto da specifiche norme di legge e interventi del Consiglio di Stato che, come ricordato accuratamente da Letizia Bixio nel saggio in catalogo, obbligano al rispetto e all’integralità dell’opera d’arte. Ma al di là delle norme giuridiche, va dato merito alla Sapienza di aver spostato l’attenzione dalle banalità iconoclaste delle recenti cronache politiche al piano scientifico e metodologico. Un presente che impone di “adeguare” ai propri valori, ai propri miti, al proprio epos, quelli anche simbolicamente diversi del passato, sbaglia metodo e risultati: lo continua a rendere vivo e immanente anziché esaurito. Non storicizzarlo ma combatterlo con la censura significa subirlo; l’adeguamento simbolico-figurativo ottenuto contro la libertà d’espressione artistica determina infatti un’indistinta continuità di attività censorie. Ove non venisse condannata la censura in sé e per sé dovremmo legittimare le violenze iconoclaste contro le testimonianze artistiche di un passato voluto diverso da quello che è stato. La Sapienza ha scelto; e non poteva essere diversamente sul piano metodologico, giuridico e culturale.