Nella relazione di Sesto Giulio Frontino, sovrintendente degli acquedotti nella Roma imperiale, si scopre che la rete idrica subisce oggi gli stessi problemi di erogazione di duemila anni fa, tra perdite e allacci abusivi
di Alvise Losi dal del 30 luglio 2017
Da città eterna a città immutabile il passo è breve. Anche se duemila anni non sono pochi. La rete idrica romana subisce oggi gli stessi problemi di erogazione della Roma imperiale. È di venerdì il calcolo fatto da Legambiente Lazio sulle perdite della rete gestita da Acea: secondo il dossier «Acquedotti Colabrodo» l’azienda municipalizzata del Comune nel 2016 ha registrato perdite per il 44,4 per cento. Un dato non lontano da quello del I secolo dopo Cristo. Altri acquedotti, altre tecnologie, ma risultati simili.
Come riporta Sesto Giulio Frontino, senatore di rango consolare, i nove acquedotti dell’Urbe registravano nella sua epoca perdite vicine al 42,4 per cento. A scriverne è lo stesso Frontino, che nel 97 d.C., durante l’impero di Nerva, fu nominato curator aquarum, sovrintendente degli acquedotti di Roma, una delle più importanti cariche dello Stato proprio perché il senatore aveva la responsabilità di gestire il controllo idrico della città e controllare che gli approvvigionamenti di acqua alla capitale dell’impero non subissero problemi. L’equivalente del direttore generale di Acea oggi. Di Frontino ci rimane l’opera De aquaeductibus urbis Romae (Sugli acquedotti di Roma), un trattato sul funzionamento degli acquedotti in epoca imperiale, con dettagli tecnici e dati precisi rilevati durante la sua attività di sovrintendente.
Le perdite e le reti abusive
Gli acquedotti di duemila anni fa avevano diversi problemi, in parte per le tecnologie del tempo, perché le tubazioni potevano essere solo di piombo o di terracotta, in parte per gli allacci abusivi che rubavano acqua con la connivenza degli addetti alla manutenzione. C’era poi una questione di usura: il più antico acquedotto, l’Aqua Appia, era stato costruita da Appio Claudio nel 312 a.C., quattro secoli prima di quando Frontino fu nominato sovrintendente. Ma non erano da meno l’Aniene Vecchio (269 a.C.), l’Aqua Marcia (130 a.C.) e la Tepula (125 a.C.). Cinque acquedotti erano invece stati costruiti nel secolo precedente: l’Aqua Giulia (33 a.C.) e l’Aqua Vergine (19 a.C.) costruite da Marco Agrippa, il braccio destro di Augusto che istituì la carica di curator aquarum, l’Aqua Alsietina (2 a.C.), l’Aqua Claudia (52 d.C.) e l’Aniene Nuovo (52 d.C.). Tutti i nove acquedotti, i resti dei quali sono oggi ancora visibili, stando alle parole di Frontino perdevano molta acqua «da fenditure della conduttura, che essendo sotterranea non lascia individuare facilmente le infiltrazioni», ma in città furono anche scoperte «tubazioni abusive» e inoltre gli addetti alla manutenzione (aquarii) corrotti «derivavano da condutture pubbliche acque per usi privati». E questo nonostante in età augustea fosse stata promulgata una legge che prevedeva forti sanzioni per questa tipologia di abusi: gli atti di danneggiamento degli acquedotti comportavano una multa di 100mila sesterzi, oltre al costo della riparazione. Per avere un’idea della cifra basti pensare che a Pompei sono stati ritrovati i listini dei prezzi delle taverne e risulta che un chilo di pane costasse mezzo sesterzio.
Il confronto con la Roma contemporanea
Frontino, che con le sue competenze e i suoi poteri riuscì a migliorare la situazione degli acquedotti romani, scoprì e verificò con proprie misurazioni che a fronte di una portata d’acqua potenziale di 24.360 quinarie, cioè l’unità di misura utilizzata dai romani, solo 14.018 quinarie venivano effettivamente erogate: quasi 10mila all’interno della città, suddivise tra fontane, giardini, abitazioni private e terme, e altre 4mila extra urbem, in quello che oggi potrebbe essere considerato l’hinterland. La differenza tra la portata d’acqua degli acquedotti e l’acqua erogata rappresentava appunto il 42,4 per cento. Un dato sorprendentemente simile a quello odierno.