Esattamente 100 anni ci separano da una data spartiacque della storia: 6 aprile 1917, giorno dell’entrata in guerra degli Stati Uniti d’America. Mille significati si celano dietro l’avvenimento che conferisce una sterzata decisiva alle sorti del primo conflitto mondiale: gli Imperi centrali escono dì li a poco dalla storia e le cartine geografiche vengono ridisegnate a beneficio delle democrazie e del mondo anglosassone. Da qui comincia l’affermarsi inarrestabile degli States come superpotenza globale e protagonista negli affari europei, che fino a quel momento erano stati il “centro” della storia. Il nome fondamentale da analizzare è senz’altro quello del presidente americano Wodroow Wilson, con il quale «la dottrina Monroe si dissolve nel suo significato concreto per divenire un’idea universalistica» (Giovanni Damiano). Alle spalle del leader democratico, già autore di numerosi interventi militari in America Latina, c’è una tradizione messianica corroborata dall’idea di superiorità rispetto al mondo europeo, dove si decide di intervenire a dispetto di un corposo patrimonio isolazionista, e pensiamo solo al «Farewell Adress» di Lincoln.
di Francesco Carlesi dal del 6 aprile 2017
La specificità dell’ideologia wilsoniana sta nel tentativo di realizzare il duplice compito di portare gli Stati Uniti nell’arena del mondo, mantenendone però intatte purezza e diversità. Da qui l’idea di un «nuovo ordine mondiale di carattere rigenerativo», come descritto dal Professor Andres Stephanson nei suoi studi sull’«eccezionalismo» americano. Wilson descrive il suo paese come «faro del mondo», «nuova Israele» abitata da «i campioni dei diritti dell’umanità, crociati in lotta per una santa causa». E’ inequivocabilmente il Bene contro il Male, il primo passo per quelle che saranno le idee guida di molte amministrazioni, non solo quella di G. W. Bush ma democratiche in particolare. Come Roosevelt, Wilson viene rieletto sulla base di un programma neutralista, per poi sconfessare clamorosamente le promesse portando la nazione in guerra. Come Obama, Wilson riceve un premio Nobel per la Pace a dir poco generoso, coprendo dietro le parole diritti umani e democrazia la logica economica e di potenza a stelle e strisce. L’impresa di portare il paese nel Prima guerra mondiale è elaborata. Nel 1915, William Bryan, segretario di Stato dell’amministrazione Wilson e convinto sostenitore della neutralità, si dimette a favore di Robert Lensing, vicino al complesso militare-industriale: i rubinetti delle banche si aprono allora a favore dell’Intesa, tanto che «la guerra in Europa dilatò di quasi cinque volte l’avanzo mercantile degli Stati Uniti», come ha scritto Geminello Alvi. A corollario si riportino le parole del 5 marzo 1917 dell’ambasciatore americano a Londra, Walter Page: «forse la nostra entrata in guerra è l’unica via per conservare al nostro commercio la sua posizione preminente e per scongiurare la crisi».
Nel frattempo un uso accorto della propaganda unito a censura e leggi draconiane contro le opposizioni (Espionage Act, Overman Act) ammorbidisce gradualmente un paese in larga parte contrario all’intervento, fino al controverso casus belli, l’affondamento del “Lusitania” che, unito ad altri pretesti (dalla guerra sottomarina al ventilato appoggio tedesco al Messico in funzione anti-USA), spiana la strada all’intervento contro la Germania. Senza indurre in facili complottismi, bisogna qui rilevare come una costante della storia americana è rappresentata da eventi sanguinosi, clamorosi (e ancora dibattuti) capaci di scuotere l’opinione pubblica e mobilitarla in favore di conflitti armati, dall’affondamento del “Maine” (guerra ispano-americana, 1898) fino a Pearl Harbour e l’11 settembre. Quando il gigante a stelle e strisce scende in campo e decide il conflitto, l’Europa più o meno consapevolmente comincia ad abdicare dal suo ruolo globale, dal punto di vista sia politico che economico. Nel 1918 Wilson detta legge al tavolo della pace ed elabora i cosiddetti 14 punti, basati sulla carta su autodeterminazione dei popoli e libertà e ispirati da Edward Mandell House, la cui influenza è arrivata fino a Obama. Finanziere e industriale di rilievo, House riesce ad a convincere Wilson dei suoi progetti “progressisti e illuminati” volti all’edificazione di un internazionalismo guidato dagli Stati Uniti e dal loro «destino manifesto». Non stupisce di trovare il suo nome tra i fondatori del Council of Foreign Relations, tra le più potenti lobby di pressione e indirizzo della politica per gli USA e i suoi satelliti, come ha ricordato Emanuele Mastrangelo nel recente numero di Storia in Rete titolato emblematicamente Le mani USA sull’Europa. Lo stesso Mastrangelo ha ricordato: «Fra i fondatori compariva anche Walter Lippmann (…) e finanziatori come le fondazioni Ford e Rockfeller, a riprova della saldatura fra progressismo sociale, interessi della grande finanza e interventismo in politica estera che contraddistingue la peculiarità della sinistra liberal americana».
La serie di interessi che spinse per l’ingresso in guerra verrà messa in luce dai lavori di una commissione ad hoc del Senato americano guidata da Gerald Nye, che individuò nei banchieri dell’entourage della JP Morgan & co. i maggiori responsabili, prima di essere fermata dal governo. Mentre viene ridisegnata la mappa del Medio Oriente dalla democrazie, con dolorose conseguenze che si riverberano fino ai giorni nostri (pensiamo solo alla Siria), la diffusione della lingua inglese e la penetrazione commerciale del dollaro cominciano a farsi sostenute, simboleggiate ad esempio dal «Piano Young», elaborato da un banchiere americano per calendarizzare le riparazioni dei danni di guerra dovute dalla Germania. Allo stesso tempo, la mancata adesione USA alla Società delle Nazioni e la successiva politica della presidenza Hoover saranno vistose battute d’arresto dell’azione americana in Europa. Ma la strada è tracciata, e sul solco del 6 aprile 1917 si inseriranno Roosevelt e la seconda Guerra Mondiale per sancire la netta sconfitta delle velleità del Vecchio Continente. Nonostante numerosi sconvolgimenti geopolitici, dopo un secolo ancora non si vede chiaramente all’orizzonte la fine di quel dominio americano simboleggiato dal disprezzo verso l’Europa di teorici neocons quali Robert Kagan e Victoria Nuland e descritto con maestria da Giorgio Locchi nel Il male americano. I molti scricchioli, come la crisi del 2008, non hanno fatto perdere la supremazia della moneta americana a livello internazionale e incrinato l’altissimo livello di impegni e spese militari, che restano saldamente a Washington. Il ritrovato ruolo della Russia, la forza “silenziosa” della Cina, il dilagare della protesta antiglobalizzazione in Occidente simboleggiato dai cosiddetti populismi restano sul piatto quali indizi di potenziali cambiamenti e di una storia che non accenna a “finire”, sperando che l’Europa e l’Italia prima o poi battano un colpo.