Pitigrilli fu a lungo un marchio d’infamia. L’accusa di aver denunciato Cesare Pavese, Leone Ginzburg, Massimo Mila e Carlo Levi all’Ovra, la polizia segreta del duce, cancellò in Italia la sua gloria di scrittore. Ora Pier Maria Furlan, lunga carriera accademica e ospedaliera di psichiatra a Torino, conteso tra cariche e congressi internazionali, ha deciso di chiamarsi Furlan Pitigrilli.
di Alberto Sinigaglia da del 05/12/2016
Al cognome della madre Lina Furlan, prima italiana di professione avvocato, ha ottenuto di aggiungere lo pseudonimo del padre, Dino Segre, saluzzese, per 20 anni romanziere di successo mondiale, nel dopoguerra esule volontario in Argentina e a Parigi, i suoi successivi 30 libri tradotti in 15 lingue, ma ignorati dai recensori italiani. Di «Pitigrilli: l’uomo che fece arrossire la mamma» si occupò Umberto Eco ne «Il superuomo di massa», dedicando pagine importanti allo scrittore precocemente noto per il tempestoso amore con la poetessa Amalia Guglielminetti, musa di Guido Gozzano, e per l’erotismo, l’umorismo, l’ironia, il linguaggio spregiudicato fin dai titoli: «Mammiferi di lusso», «La cintura di castità», «Cocaina», «Oltraggio al pudore», «La vergine a 18 carati», «Dolicocefala bionda», «Le amanti» e tanti altri.
Perché, professor Furlan, aggiungere al suo cognome Pitigrilli? E perché farlo ora?
«Non mi interessa fare notizia, ma tramandare il nome di un grande letterato, innovatore, umorista che durante il proibizionismo morale del fascismo denunciava le scomode verità borghesi, coperte dal Minculpop. Un intellettuale coltissimo che Eco definì molto attuale. Soprattutto mi interessa che i miei figli possano essere orgogliosi del nonno, che ha segnato non solo la letteratura italiana, ma anche quella occidentale. Una figura con la quale, oltre all’affetto filiale, c’era una grande amicizia».
Lina Furlan detta Liù, fu la prima donna italiana a esercitare la professione di avvocato penalista e protagonista del foro torinese. Ne ha portato il cognome con orgoglio fino a oggi. Non le sembra in questo modo di rifiutarla, almeno in parte?
«No, anzi. Mia madre era donna molto affascinante e colta. Nei quasi 35 anni del loro matrimonio i miei genitori hanno mantenuto un’unità affettiva e intellettuale esemplare. Ricongiungendo i loro nomi, mi sembra di testimoniare un’unione che, a dispetto della fama di mio padre, di brillante seduttore, si è dimostrata solida e indispensabile a superare le drammatiche vicende della nostra vita».
Perché non rivendicare il cognome di Dino Segre, anziché lo pseudonimo Pitigrilli?
«Mio padre scrisse il libro “Mosè e il Cavalier Levi” per dimostrare che, superata la memoria dei lager nazisti, l’antisemitismo sarebbe tornato. E più volte mi chiese di non assumere un cognome così tipicamente ebraico per coerenza, perché non avevo più la cultura e le tradizioni di questo grande popolo da poter tramandare. Inoltre pensava che i pogrom e i lager sarebbero prima o poi tornati. Forse per questo, sin dai suoi primi scritti, adoperò uno pseudonimo».
La scelta di quel nome significa anche volontà di riabilitarlo, di rendergli giustizia?
«Le colpe che gli sono state attribuite non sono mai state realmente provate. E mi permetto di ricordare la pubblica difesa di mio padre da parte di Indro Montanelli, così come la rassicurazione che mi diedero personalmente Giulio Andreotti e monsignor Montini. Natalia Ginzburg, che faceva leggere le sue prime novelle a Pitigrilli, in ”Lessico famigliare” ne parla bene, e con Rita Levi Montalcini – che lo cita affettuosamente nel suo libro – passammo una piacevole serata, smentendo quelle infamanti accuse. Un po’ più libero dagli impegni medici e universitari, avrò finalmente tempo di esaminare con calma le casse di documenti conservati da mia madre. Purtroppo quelli di mio padre vennero rasi al suolo dal bombardamento del 1943».
Ha già ho cominciato a esaminare quei documenti?
«Emergono fatti significativi. Togliatti non concesse mai l’appuntamento più volte richiesto da mio padre. Le dicerie che le vere spie fossero personaggi insospettabili sono ora per me stimolo a improvvisarmi storico, a confrontare le non poche contraddizioni tra gli accusatori nella convinzione che fosse diventato un comodo capro espiatorio. Sarà mia cura non trascurare nessuna notizia utile a scagionarlo».
Suo padre non si era forse difeso abbastanza?
«No, uno scettico conservatore come lui non sapeva difendersi. Le cito un suo aforisma: “Se ti accusano di aver rubato la Tour Eiffel, prima scappa”. Non credeva nella giustizia degli uomini, e anche per questo il suo ritorno alla Chiesa cattolica, pur non praticante, fu autentico. Pio XII lesse e apprezzò la “Piscina di Siloe”, il cardinal Montini ricevette più volte mia madre».
Ha timori, sospetti?
«Le “Grandi Firme” di Pitigrilli – che furono chiuse proprio da Mussolini! – inventarono un genere di rivista. E con il “Dramma” mio padre diffuse e promosse in Italia i nomi degli scrittori stranieri più importanti, allora sconosciuti da noi; i suoi aforismi circolano tuttora citati da nomi famosi che se ne appropriano. Non sarà che gli attacchi vengono proprio da quella categoria che mio padre disprezzava? Non sarà che Pitigrilli è un autore ancora scomodo alla mediocrità regnante?».