È un fatto che, asfissiata da mezzo secolo di retorica e di plumbeo cerimoniale di ispirazione sovietica, la celebrazione del 25 aprile abbia perso tutto il suo smalto.
di Paolo Granzotto da Il Giornale del 26 aprile 2016
Lasciando per strada la sua anima: i riferimenti alla guerra partigiana, alla resistenza e alla stessa «liberazione» dal giogo nazifascista. Per i «giovani» (16-50 anni) essa è solo giornata festiva – non si va a scuola, non si va al lavoro, si fa la grigliata – come testimoniano, ce ne fosse mai stato bisogno, inchieste e sondaggi vari. In fortissimo calo anche le rivendicazioni qualificative. E non solo dell’aver partecipato, foss’anche di sguincio (Oscar Luigi Scalfaro ebbe la qualifica di partigiano e pure la presidenza dell’Anpi per aver concesso a una mezza dozzina di loro – e per una notte – i locali dell’Azione Cattolica di Novara) alla così detta guerra di liberazione: l’anagrafe è quella che è e non fa sconti a nessuno. Ma anche quella di diritto dinastico (ben rappresentata da una fotografia pubblicata ieri dal Fatto Quotidiano e che ritrae un giovanotto inalberante un cartello con scritto: «Nipote di ex partigiano»).
A questo calo di tensione e di militanza per la (gloriosa) epopea, al disimpegno generalizzato, per dir meglio, fece fronte il 25 aprile dello scorso anno Laura Boldrini. Buttando là che la resistenza vive essendo i migranti i nuovi partigiani. «Settant’anni fa – scandì – c’erano i partigiani che combattevano per la libertà in Italia, oggi capita che molti partigiani che combattono per la libertà nei loro paesi, dove la libertà non c’è, siano costretti a scappare, attraversando il Mediterraneo con ogni mezzo». Poco contò la bislacca incoerenza dell’assunto boldriniano: i (gloriosi) partigiani la libertà la combattono dove c’è da difenderla. Le Brigate Garibaldi mica se la filarono all’estero per udir fischiare il vento e urlare la bufera. Comunque, l’idea che una iniezione di migranza rinvigorisse l’anemica immagine della resistenza riportandola ai fasti del dopoguerra piacque, fu giudicata una buona scelta di marketing. Tant’è che l’abbiamo vista in opera nelle celebrazioni di ieri, dove nella generale soddisfazione dei presenti i leggendari fazzoletti rossi delle bande si tingevano del nero dell’islam migrante. Con tanto di allegorie scenografiche, quale il muro di cartone (ovviamente simbolo dei muri che gli «egoismi nazionali» alzano per contrastare l’orda migratoria) eretto a Milano e che nella sua inarrestabile marcia il fronte del corteo avrebbe dovuto travolgere. Come poi in effetti ha maestosamente travolto, ovviamente al canto di «Bella ciao». Il lettore sa quanto qui si sia portati all’entusiasmo per il pensiero e l’opera di Laura Boldrini. La sua ideona di associare la vecchia gloria partigiana alla nuova gloria migratoria è sicuramente di quelle forti. Però poi non si lamenti se le urne danno risposte austriache.