Analizzare, in maniera oggettiva, la guerra partigiana è in Italia impresa complessa. Comporta decostruire il mito resistenziale costituitosi subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale.
di Matteo Sacchi da il Giornale del 23/04/2016
Alla creazione di quel mito contribuirono diversi fattori: la necessità di accreditarsi presso gli alleati come cobelligeranti, la volontà dei più di raccontarsi come da sempre nemici del Regime fascista, il desiderio delle forze politiche repubblicane, in primo luogo il Pci, di accreditarsi come fondamentali nella sconfitta di Mussolini. A più di 70 anni di distanza però è legittimo cercare di fare un bilancio strettamente militare del contributo della Resistenza allo sforzo bellico contro l’Asse. Non significa sminuire il coraggio dei combattenti agli ordini del Cln, ma semplicemente portare avanti un’analisi storica ragionata.
È quello che cercano di fare i due storici Pier Paolo Battistelli e Piero Crociani nel saggio La guerra partigiana in Italia. Una storia militare, in arrivo in libreria per la Leg dal 28 aprile (pagg. 140, euro 18). Il testo fa grossi sforzi per quantificare le forze partigiane nel corso del tempo e valutare gli effetti della loro azione contro le truppe tedesche e la Rsi. Dopo l’8 settembre ’43 il costituirsi di forze partigiane fu piuttosto lento e farraginoso. Molti militari allo sbando si ritirarono in zone isolate del territorio occupato, più con lo scopo di sottrarsi ai tedeschi che di aggredirli. Le formazioni partigiane erano «piuttosto piccole, comprendenti di solito non più di 10-12 uomini, e che superavano solo di rado le 50 unità». Nel dicembre del ’43 nonostante l’afflusso dei renitenti alla leva della Rsi le forze partigiane erano stimabili attorno alle 10mila unità, non tutte combattenti. Giusto per fare il paragone, nello stesso periodo il Primo Raggruppamento Motorizzato, il nucleo iniziale dell’ esercito del Sud, contava 5mila uomini, eppure del contributo dei militari regolari alla Liberazione si è parlato molto meno (a fine conflitto erano circa 60mila in prima linea e 150mila nella logistica).
Per fortuna dei raggruppamenti partigiani anche l’organizzazione delle forze della Rsi fu lentissima e i tedeschi restii ad allontanare i reparti più combattivi dalla linea del fronte. In maniera dissennata poi scelsero la linea delle più feroci repressioni contro i civili. Anche così secondo Battistelli e Crociani all’aprile del 1944 le forze partigiane erano cresciute solo sino «una forza stimata di 13.500 unità, delle quali il 48% era costituito dai comunisti, ma che includeva anche importanti formazioni di indipendenti e di Giustizia e libertà (rispettivamente il 28 e il 21%)». Gli attacchi di queste forze difficilmente avevano effetti consistenti anche se andavano via via aumentando. La situazione cambiò nell’estate del 1944. L’avanzata degli Alleati sino alla linea Orbetello, Orvieto, Terni e la notizia dello sbarco in Normandia generarono un poco realistico ottimismo sul fatto che i tedeschi fossero al tracollo. A luglio erano stimabili 50mila combattenti e 20mila fiancheggiatori. E a fare la differenza c’era anche l’arrivo via aviolancio di ufficiali del SOE e dei servizi segreti Usa. Agli ufficiali di collegamento seguirono aviolanci di armi e materiali: 152 tonnellate a maggio, 362 a giugno, 446 a luglio, 227 ad agosto…
I risvolti militari di quest’aumento di attività furono però tutt’altro che buoni. I partigiani sfruttarono spesso queste nuove forze (contro il parere degli ufficiali di collegamento Alleati) nel tentativo di creare delle zone libere, le così dette «Repubbliche partigiane». Il risultato fu che per la prima volta i tedeschi poterono intervenire contro bersagli chiari e precisi. Entro ottobre le forze partigiane erano state completamente fiaccate, il 28 di quel mese la Rsi fece una nuova offerta di amnistia, tra renitenti alla leva e partigiani combattenti si consegnarono in 47mila. Solo nella primavera del ’45, quando ormai il conflitto era diventato evidentemente a un senso solo, le forze partigiane tornarono a crescere. A marzo ’45 i combattenti schizzarono a 80mila, ad aprile raggiunsero i 130mila anche se di essi solo 70mila armati.
Insomma è innegabile che ci fu una gran massa di combattenti dell’ultima ora (crebbero soprattutto le brigate Garibaldi). In generale di queste «truppe» gli ufficiali inglesi non davano un bel giudizio: «Giudicavano circa il 10% dei partigiani abbastanza buono, con un altro 30% privo di esperienza… Il resto spesso formato da puri e semplici renitenti alla leva». Con poca voglia di combattere. A questo andava aggiunta la poca voglia di collaborare tra di loro delle varie componenti politiche. Ma se non ci si fida dell’opinione degli inglesi ci si può affidare ai numeri (seppure da sempre contestatissimi). Dall’ottobre ’43 al febbraio ’45 i tedeschi persero in Italia 44.825 uomini. Di questi quelli uccisi dai partigiani furono 2075, ovvero il 4,6%. Le cifre «ufficiali» delle perdite partigiane (da sempre contestatissime, come quelle dei caduti della Rsi) invece ammonterebbero a 28.630 partigiani morti e 14.150 civili uccisi. Non sono di certo le cifre di una vittoria autonoma.