Loro chiamavano se stessi «oi romaioi», i romani. Sino all’ultimo si sentirono i custodi di un Impero che semplicemente aveva spostato il suo centro dalle rive del Tevere alle rive del Bosforo. Gli europei preferivano chiamarli bizantini.
di Matteo Sacchi da del 15 febbraio 2015
Li consideravano più spesso pretenziosi e pericolosi imperialisti invece di un fondamentale tassello per il bilanciamento dei poteri nel Mediterraneo. Tanto per dire, i Veneziani non si fecero grossi problemi nel 1204 a spingere l’esercito crociato, teoricamente alleato, a inserirsi nelle questioni dinastiche di Costantinopoli e a mettere al sacco la città. E quando invece furono i turchi a giungere sotto le mura della città, due secoli dopo, nessuno mosse un dito. Ma non è una questione solo geopolitica. Nonostante il ruolo decisivo dei dotti bizantini nella trasmissione della cultura greca, Costantinopoli non ha mai goduto di buona pubblicistica. Ancora oggi un bizantinismo è, in senso lato, un atteggiamento inutile e pedante. Eppure, per secoli, Costantinopoli è stata il bastione dell’Occidente. Contro i persiani e i bulgari prima, contro gli arabi e i turchi poi. Dopo la sua caduta nel 1453, le forze del sultano trasformarono i Balcani in terra di conquista, giunsero alle porte di Vienna.
Questa storia di bastione d’Europa è ben raccontata da Bisanzio in guerra (600-1453) di John Haldon pubblicato dall’editore Leg (pagg. 160, euro 18) e che sarà in libreria a partire dalla prossima settimana. Innanzitutto sfata il mito della opulenta ma un po’ imbelle città, piena di funzionari drappeggiati in sete preziose ma incapaci di fare il loro dovere sul campo di battaglia. Va bene per le canzoni di Guccini ma non per la Storia. Le terre dell’Impero erano per lo più montagnose e povere. Difficili da percorrere per gli eserciti. Difficili da tassare e controllare. E i nemici erano ovunque, potevano premere su qualunque confine. Il devastatore di oggi poteva diventare l’alleato di domani e viceversa. La compagine fragile di popoli sottomessi alla corona del basileus poteva insorgere e dar vita alla guerra civile alla prima indecisione dinastica o alla prima crisi economica che facesse diventare insostenibili le imposte.
Ecco che allora l’Impero si affidò a una burocrazia d’acciaio. Mantenere le strade, le fortificazioni era un’esigenza primaria. Anche la capacità di trattare divenne fondamentale. Uomini accorti giocavano su tavoli geopolitici pericolosi, decidendo cosa prendere e lasciare. Bastava poco per trasformare una scaramuccia in disastro. Fu una sconfitta da nulla nella battaglia di Manzicerta, nel 1071, a far perdere per sempre l’Asia minore centrale. E se nella memoria collettiva il generale bizantino più famoso resta il trionfale Belisario (500-565 d.C.) – che regalò a Giustiniano il sogno di recuperare l’unità mediterranea – l’arte strategica dei magister militum che servirono Costantinopoli fu molto spesso volta alla difesa.
Nei secoli, mentre l’Impero si espandeva e si contraeva, vennero prevalentemente usate due strategie diverse. Spesso si ricorreva a milizie locali che fornivano una forza numericamente consistente e facile da reperire (venivano reclutate in reparti chiamati turmae ). Molto simile ad una proto leva militare, la scelta aveva pregi e difetti. Le truppe venivano arruolate in ogni Themata (circoscrizione dell’Impero) con bassi costi ma poca mobilità, grossi numeri ma scarso addestramento. In altri casi si ricorreva a forze di mercenari altamente specializzate. A volte assoldate tra gli stessi «nemici». Spesso la guardia imperiale veniva dai principati Rus’ (ovvero era scelta tra quei vichinghi che avevano occupato i territori attorno all’attuale Kiev), gli altri reparti erano racimolati un po’ dovunque: turchi, normanni di Sicilia, europei del continente in cerca di soldo come Roussel di Bailleul (che, dandosela a gambe, provocò il tracollo di Manzicerta).
I mercenari avevano un livello di efficienza bellica più alto. Il fatto che gli stranieri potessero militarmente farsi le ossa nelle fila bizantine non sempre era un bene. Alla lunga i «contractor» svuotarono le casse bizantine. E la creazione dell’Impero turco ottomano rese sempre più difficile il traccheggio diplomatico utile alla sopravvivenza di Bisanzio. Gli scontri con il mondo islamico erano una costante da secoli ma a quel punto la battaglia totale divenne inevitabile. Bisanzio non aveva più alcun vantaggio tecnologico, i suoi territori erano stati spremuti sino al limite del possibile. I cristiani europei diffidavano degli ortodossi. E quando si presentavano sui territori dell’Impero avevano altri interessi. Uno degli esempi più calzanti è quello della compagnia catalana di mercenari che, reclutata nel 1303 da Andronico II, si trasformò in forza di occupazione.
Non ci volle molto perché i civili stremati da queste scaramucce interne preferissero la sottomissione (in stile Houellebecq) ai sultani. Meglio un sultano (turco) magnanimo che un mercenario (spesso sempre turco) fuori controllo. Nel 717 d.C. l’assedio degli arabi a Costantinopoli si ridusse ad una terrificante sconfitta per le forze islamiche, con le navi incendiate dall’inestinguibile fuoco greco. Nel 1453 l’attacco alle mura, un tempo imprendibili, della città andò in tutt’altro modo. Maometto II aveva accuratamente preparato le sue forze. Aveva giganteschi cannoni costruiti da Maestro Urban, un fonditore di campane ungherese. Da Occidente nessuno si mosse, arrivarono pochi rinforzi genovesi e veneziani, quasi delle iniziative private. Prima di venire massacrato nell’impossibile tentativo di difendere la Porta d’oro, l’ultimo Basileus , Costantino XI Paleologo, mandò questo messaggio a Maometto II, che voleva la sua resa: «Darti la città non è decisione mia né di alcuno dei suoi abitanti; abbiamo infatti deciso di combattere, e non risparmieremo la vita». Maometto II lo prese in parola e lasciò i suoi liberi di uccidere e saccheggiare.