Gulag, carestie, epurazioni, eliminazione del dissenso, stragi di massa, deportazioni etniche, torture nelle segrete della Lubjanka. In tutto tra i 20 e i 40 milioni di morti. Non importa di quanti orrori sia costellato il suo “regno” (1924-1953), Stalin rimane per i russi il personaggio storico più popolare, il leader che ha condotto l’Unione Sovietica a vincere la seconda guerra mondiale e che ha arginato il nazismo, l’ideatore dei piani quinquennali che hanno trasformato la Russia in un gigante economico.
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Marta Allevato su www.ilgiornale.it del 23 dicembre 2009
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Così, nel 130° anniversario della nascita del «piccolo padre» lo scorso lunedì, sulla sua tomba ai piedi del Cremlino a Mosca si sono recate circa cinquemila persone: figli di funzionari dell’Unione sovietica, campioni sportivi, parlamentari del partito comunista. Hanno sfidato una bufera di neve pur di portare il loro omaggio a Josif Visarionovich Dzhugashvili, in quello che reputano un «giorno di festa».
Sembra proprio che, a più di mezzo secolo dalla sua morte, la Russia non riesca a liberarsi dal fantasma di Koba (soprannome giovanile di Stalin), che continua a sedurre ancora una fetta cospicua dei suoi cittadini. Come dimostra il recente sondaggio dell’Istituto Vtsiom, secondo il quale il 37% degli intervistati prova per Stalin sentimenti positivi, mentre solo il 24% esprime un giudizio negativo. Il 35%, inoltre, pensa che la cosa più importante fatta dal dittatore sia stato condurre l’Urss alla vittoria nella seconda guerra mondiale. Il dato che allarma di più le associazioni per il ricordo della repressione stalinista è quel 29% di intervistati che gradirebbe alla guida del Paese un leader come Stalin. L’anno scorso Koba è arrivato terzo in un sondaggio tv per eleggere il più grande russo di tutti i tempi, mentre gruppi di fanatici chiedono da tempo alla Chiesa ortodossa la beatificazione di San Josif.
La risurrezione politica dell’eredità stalinista ha coinciso con l’ascesa, nell’ultimo decennio, dell’uomo forte di Russia: Vladimir Putin, che ha cavalcato l’onda della nostalgia per il passato sovietico. Operazioni mediatiche ed editoriali volte a presentare uno Stalin edulcorato, si sono susseguite sulle emittenti di Stato e sui banchi di scuola. Non sono passati inosservati i manuali di storia che riabilitano la figura del «piccolo padre», omettendo o ridimensionando gli errori delle sue politiche. Il tutto in piena contraddizione con la decisione di rendere obbligatoria nelle scuole la lettura di Arcipelago gulag di Solgenitsin.
La destalinizzazione del Paese, ammoniscono all’unisono i difensori dei diritti umani, non è finita e la Russia deve fare i conti una volta per tutte con il suo controverso passato, come ha fatto la Germania. E proprio in questo, molti analisti individuano una delle cause della nostalgia di Stalin. Mentre la Germania riunificata e l’Europa si sono rapidamente integrate, mentre l’Oriente si è lanciato in un sorprendente boom economico e nella globalizzazione, la Russia post sovietica è rimasta isolata. Secondo Vladimir Ryzhkov, professore all’Alta scuola di economia di Mosca e politico indipendente, la Federazione russa non ha ancora superato la sua instabilità e il Paese sembra involvere invece che progredire.
Come ai tempi dell’Urss, la Russia dipende interamente dall’export di risorse energetiche: l’86% dell’export russo consiste in materie prime e i prodotti finiti coprono l’80% dell’import. Ogni tentativo di creare un’economia moderna e basata sull’alta tecnologia è naufragato. La media delle entrate per un cittadino russo è la stessa di 20 anni fa, mentre oggi il 20% del Paese vive sotto la soglia di povertà. Più del 50% della ricchezza nazionale è concentrato nelle mani del 10% della popolazione. Nel Rapporto sulla competitività mondiale del World Economic Forum, la Russia è 63ª, su centotrentadue nazioni; dietro a Turchia, Messico e perfino Azerbaijian. Lo stessa involuzione si è registrata nel campo dei diritti umani. Nella classifica 2008 dell’Economist sulla democrazia nel mondo, la Russia era al 108° posto su 167 Stati. E in molti pensano che «si stava meglio, quando si stava peggio».
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Inserito su Storia in Rete il 24 dicembre 2009
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