A sera la pioggia comiciò a cadere fittissima, mentre l’esercito piemontese si ritirava in disordine all’interno di Novara. Le truppe, ridotte allo sbando, erano state appena sconfitte dall’esercito austriaco, che si stava nel frattempo accampando fuori città. Quando calò il buio il caos aumentò. La divisione del generale Bes, arrivata sotto Novara, venne cannoneggiata dai bastioni, perché scambiata per austriaca. Fuoco amico. Nella notte la città fu teatro di gravi disordini e violenze. Ai soldati mancavano i viveri, e i più animosi e spregiudicati tra di loro si diedero al saccheggio. Dovette intervenire la cavalleria, che caricò e falciò un buon numero di depredatori in uniforme. Era il 23 marzo 1849.
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di Marco Meriggi, da La Stampa del 17 febbraio 2011
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Da qualche ora Carlo Alberto aveva rotto gli indugì e annunciato la decisione a cui pensava da tempo: l’abdicazione e l’immediata partenza per l’esilio. Tre giorni dopo, il suo successore, Vittorio Emanuele II, firmò l’armistizio. Aveva accanto a sé il generale Chrzanowski, un polacco che doveva la sua fama all’impegno profuso nel 1831 nella guerra del suo Paese contro i russi, e che da qualche mese comandava le truppe sabaude. Dall’altra parte del tavolo c’era il vincitore della battaglia, l’ottantaduenne feldmaresciallo Radetzky, l’uomo che nei mesi appena trascorsi era stato capace di garantire la sopravvivenza di un impero – quello asburgico – che nel marzo 1848 molti avevano dato per spacciato.
La battaglia di Novara chiuse nel modo più desolante, per il regno di Sardegna, una guerra durata appena quattro giorni, anche se annunciata già dal 12 marzo. Il 20 marzo l’esercito piemontese aveva varcato il Ticino a Boffalora, avanzando fino a Magenta, con l’obiettivo di strappare agli austriaci una Milano dalla quale ci si attendeva una nuova insurrezione. Ma il giorno dopo i sabaudi patirono la controffensiva asburgica e furono sconfitti a Mortara, dove gli austriaci fecero 2000 prigionieri. Quello che la mattina del 23 marzo affrontò le truppe di Radetzky nei dintorni di Novara, in una battaglia che Chrzanowski aveva immaginato come essenzialmente difensiva, era un esercito cresciuto troppo in fretta nei mesi precedenti, mal finanziato, scarso di quadri e dotato di pessimi servizi logistici. Lo comandava un uomo che conosceva poco il Paese e quasi per nulla la sua lingua. Ma, soprattutto, i militi si sentivano demotivati, e avventatamente trascinati in una guerra che non li accendeva di passione dalla pressione congiunta della Camera dei deputati e di un re mosso soprattutto dalla bramosia di riscattare la sconfitta con la quale l’estate precedente s’era ingloriosamente conclusa la prima guerra d’indipendenza.
A partire dalle 11 di mattina, su un altipiano ondulato situato due chilometri a Sud di Novara, tra l’Agogna e il Terdoppio, di cui il villaggio della Bicocca occupava la parte dominante, si affrontarono 45.000 piemontesi e 65.000 austriaci. Ma molti di questi ultimi non vennero neppure impiegati, perché la battaglia finì prima che arrivasse il loro turno.
Le sorti dello scontro rimasero incerte nelle prime ore, quando i casali della Bicocca passarono più volte di mano da un esercito all’altro. Verso le due, quando il duca di Genova – uno dei figli del re – si impadronì alla testa dei suoi uomini di Castellazzo e di Olengo, cacciandone gli austriaci e facendoli inseguire dai tiratori, la vittoria parve arridere ai sabaudi. Ma Chrzanowski sciupò l’occasione e, reputando troppo pericolosa la difesa della postazione di Olengo, ordinò il temporaneo ritiro delle truppe. Molti ne approfittarono per sciamare in ordine sparso in città, le cui porte erano state lasciate improvvidamente aperte. E mentre i sabaudi perdevano i pezzi, entrarono in gioco le forze fresche della riserva austriaca e ripresero la Bicocca, ponendo il suggello finale alla battaglia. Da parte piemontese s’erano contati 578 morti, 1405 feriti, 409 prigionieri. Tra gli austriaci i caduti erano stati 410, 1850 i feriti, 877 i dispersi.
La battaglia di Novara rappresentò il momento di avvio di quella riscossa austriaca e assolutista in Italia che nel giro di pochi mesi spense gli ultimi fuochi delle rivoluzioni divampate un anno prima nella penisola. A maggio i Borboni ripresero la Sicilia ribelle, a giugno Radetzky entrò con le sue truppe a Firenze e spianò la strada al rientro in città dell’arciduca Leopoldo d’Asburgo, che avvenne a fine luglio. Nel frattempo, già da qualche settimana la Repubblica romana s’era arresa ai francesi e ad agosto sarebbe cessata, sotto i colpi delle cannonate austriache, anche la resistenza di Venezia. Ovunque, nel resto d’Italia, l’assolutismo tornava a dominare e il lungo ’48 degli italiani era finito. E c’era il rischio di una svolta reazionaria anche nello Stato sabaudo, dove si temeva che la sconfitta di Novara portasse con sé il congelamento della spinta liberale che aveva avuto il suo coronamento nella concessione dello Statuto.
Le condizioni imposte da Radetzky a Vittorio Emanuele erano gravose, ma non umilianti. E se il feldmaresciallo s’era risolto a non infierire sullo sconfitto, era perché quest’ultimo gli aveva espresso la ferma determinazione a mutare rotta rispetto al padre, e a mettere le briglie al fronte patriottico che nei mesi precedenti aveva persuaso il sovrano a riprendere la guerra. I primi passi di Vittorio Emanuele II, in effetti, parvero dare conferma alle sue parole. Il 27 marzo il re impose il fidato De Launay alla testa di un governo conservatore, deludendo le aspettative della maggioranza democratica della Camera, che avrebbe voluto la prosecuzione della guerra. E il 10 aprile, alla testa di 25.000 uomini, il generale Alfonso La Marmora fece il suo ingresso a Genova, la roccaforte democratica e repubblicana che era insorta una decina di giorni prima perché delusa dalla troppo repentina resa agli austriaci. Appena entrate in città, le truppe ebbero il via libera alle violenze e ai saccheggi. Pareva che il regno si avviasse a tornare assolutista. Ma poi le cose presero un’altra piega.
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Inserito su www.storiainrete.com il 17 febbraio 2011