di Edoardo Sylos Labini da CulturaIdentità del 26 ottobre 2024
Il 26 ottobre del 1954 il vento di Bora, una fitta pioggia e una città imbandierata accolgono i bersaglieri al loro ingresso a Trieste. I triestini affollano la piazza: piangono e si abbracciano, ridono, cantano, fanno caroselli in “Vespa”. Quando i bersaglieri scendono dalle navi da guerra della Marina ogni triestino si getta su di loro e gli strappano bottoni, mostrine, lembi di uniformi per conservare un ricordo di quello che sarebbe stato uno dei giorni più belli della loro vita. Per gli italiani di qua della Cortina di Ferro, la guerra era infatti finita nel 1945, per i triestini è durata nove anni in più.
Dopo gli anni terribili della violenza slava, degli infoibamenti, dell’esilio, dell’occupazione straniera, il Tricolore torna a sventolare sulla piazza Unità d’Italia accolta da un’immensa folla in festa. Ma se per i triestini si tratta di un giorno di festa, per gli istriani e gli italiani della Zona B significa lutto, la fine di tutte le speranze: quelle terre sono jugoslave.
Quando si parla delle vicende del confine orientale si ricorre ad una parola che equivale ad allargare il campo d’indagine a dismisura, per inserire una miriade di dati e informazioni che tendono, però, tutte verso un fine: giustificare, minimizzare e, infine, negare. E quasi sempre si cerca di buttare la colpa sugli “italiani” che si sono inseriti in una zona dove tra austriaci e slavi si viveva senza conflitto. Un mito propagandistico, duro a morire, condiviso da asburgici, austriacanti, nazionalisti sloveni e croati e comunisti di qua e di là del confine: in altre parole da tutti coloro che erano accomunati da un unico sentimento: l’inimicizia per l’Italia e gli italiani.
Così la vulgata per 80 anni ha addossato le “colpe” di quanto avvenuto a Trieste, Gorizia, in Istria e a Zara durante e alla fine della Seconda guerra mondiale al solo comportamento degli italiani in generale e ai “fascisti” in particolare, negli anni che vanno dall’avvento del regime al 1943.
Un’analisi più accurata, storicamente e anche per onestà intellettuale, deve risalire con pazienza ai decenni precedenti, quando non a secoli prima, e raccontare di quelle terre, dei poteri che si sono susseguiti, delle culture nate, degli uomini e delle donne che sono stati protagonisti della storia della Venezia Giulia, dell’Istria e della Dalmazia. Non si può dimenticare, quindi, Roma, Venezia e la cultura istro-veneta.
Trieste è una città contesa al centro di un territorio contrastato. Trieste è nostra hanno gridato italiani, gli austroungarici e gli slavi. I primi richiamandosi ad un’idea culturale di nazione, gli altri più legati al sangue, all’etnia.
La storia medievale e moderna di Trieste ricalca in gran parte quella di tante altre città italiane, divise tra aspirazioni comunali e signoria. Le vicende di Trieste e di quella parte perduta d’Italia nel dopoguerra, nel periodo che va dal 1943 al 1954 si racchiudono nelle tragiche pieghe di un conflitto ideologico-politico improntato alla visione della lotta di classe e all’odio etnico contro la componente italiana.
Non si può dimenticare che dal 1943 a oggi mai c’è stata alcuna condanna, anche solo morale, dei criminali che usarono le foibe come metodo di eliminazione degli italiani dalle loro storiche terre. Non si possono confondere le vittime con i carnefici. I martiri meritano un posto speciale nella memoria di un popolo e anche segni tangibile nella vita pubblica, senza falsi storici, nel rispetto della verità sui fatti accaduti tra il 1943 e il 1954.
A ripercorrere queste vicende, nel 70° del ritorno della Città di San Giusto all’Italia, esce oggi il volume “1954. Trieste. Italia”, il racconto scritto di Umberto Maiorca ed Emanuele Mastrangelo, illustrato da Francesco Bisaro. (Ferrogallico, pp. 226, € 19,00). Il racconto storicamente accurato e stavolta veramente contestualizzato di una vicenda di passione, amore, lotta e dolore, di rivendicazioni dell’identità nazionale, ma anche di culture e di linguaggi che riconducono ad un’unica appartenenza: quella italiana.