Alberto Anile da “Robinson – la Repubblica”
Via col vento è il film dei film, il kolossal per eccellenza. Prima di Ben Hur e dei Dieci Comandamenti, prima del Gattopardo e dell’Ultimo Imperatore, di Titanic e del Signore degli anelli, e più amato di tutti questi.
La sua storia è leggendaria: tre anni di gestazione, cinque mesi di riprese, quattro registi avvicendati e diversi esaurimenti nervosi. Via col vento è pura mitologia, e la mitologia crea mitologia: la lavorazione del film fu talmente caotica e avventurosa da aver prodotto tonnellate di libri.
L’ultimo è Rossella del francese François- Guillaume Lorrain, appena uscito in Italia per Corbaccio editore. Si fregia della definizione di ” romanzo” ma in realtà è un riassunto appena romanzato delle traversie che portarono l’esordiente Margaret Mitchell a pubblicare un volume di mille pagine, David O. Selznick a produrre la sua impresa più fortunata e Vivien Leigh a eternarsi in un personaggio indimenticabile. Pubblicato in America nel 1936 (e da noi l’anno dopo), il romanzo incuriosì subito l’entourage di Selznick, produttore febbrile e disordinato alla costante ricerca di materiale da trasformare in pellicola.
Ma al cinema la guerra di Secessione faceva in genere fiasco, e prima di acquistare i diritti il produttore ci pensò su parecchio. Quando si decise, si rese conto che l’impresa più ardua sarebbe stata trovare l’attrice giusta per la capricciosa cocciuta affascinante Rossella O’ Hara: dopo aver considerato Tallulah Bankhead e Bette Davis, furono fatti provini a Lana Turner, Joan Fontaine, Loretta Young, Katharine Hepburn e mille altre. Paulette Goddard arrivò a un passo dal ciak ma fu infine scartata perché conviveva scandalosamente con Charlie Chaplin.
Come racconta anche il libro di Lorrain, la svolta avvenne a riprese già iniziate, durante il gigantesco falò di vecchie scenografie ( fra cui quelle di King Kong) utilizzato per la scena dell’incendio di Atlanta:
l’inglese Vivien Leigh era venuta in America per stare vicina all’amante Laurence Olivier ma, essendo convinta di essere perfetta per il ruolo di Rossella (come mezza Hollywood, per la verità), prima di ripartire andò a trovare Myron Selznick, il fratello di David; Myron la portò sul set infuocato, dove tutti, a cominciare dal regista George Cukor, si resero conto che la ragazza aveva l’aspetto e il piglio ideali per il ruolo della protagonista.
Altra storia per Rhett Butler: anche se si parlò pure di Errol Flynn e di Gary Cooper, l’unico vero candidato rimase sempre Clark Gable, che però aveva timore a calarsi in un personaggio letterario popolarissimo; accettò solo quando Selznick gli offerse una consistente somma da girare alla moglie perché gli concedesse il divorzio, permettendogli così di risposarsi con l’amatissima Carole Lombard.
Seguirono cinque mesi buoni di riprese, in cui Cukor fu presto sostituito da Victor Fleming (ma diverse scene furono girate da Sam Wood e da William Cameron Menzies), la sceneggiatura subiva continue revisioni (ci mise le mani anche Francis Scott Fitzgerald) e Selznick, che andava avanti a pillole di benzedrina, andò vicinissimo a lasciarci la ghirba.
Dopo diversi rifacimenti, una preview a Riverside e ancora altre modifiche, nel dicembre del 1939 Via col vento cominciò la sua trionfale uscita in sala, ottenendo pochi mesi dopo otto premi Oscar fra cui quello a Hattie McDaniel, prima afroamericana premiata con la dorata statuetta.
Considerando il tasso d’inflazione, è ancora oggi il film che ha incassato in assoluto di più nella storia del cinema. Tutto questo viene raccontato dal libro di Lorrain con leggerezza e gusto del dettaglio. È un racconto indirizzato non al critico o al cinefilo, che queste cose le hanno sentite e lette più volte, ma al semplice appassionato che volesse sapere qualcosa di un film leggendario.
Spiace solo che l’autore abbia voluto infilare nelle sue “scene” qualche espressione disinvolta: Bette Davis che definisce il romanzo della Mitchell «un pippone», la Garbo e la Dietrich chiamate «rompicoglioni», Selznick gratificato del titolo di «uomo di merda»: saranno anche battute recuperate da fonti storiche (peraltro non dichiarate) ma paiono dei maldestri tentativi dell’autore di rendersi simpatico e intrigante.
Ben altra “volgarità” fu quella di Selznick, che volle mantenere la sfrontata, immortale battuta finale di Rhett Butler, «Frankly, dear, I don’t give a damn» (in italiano doppiato « Francamente, me ne infischio»).
La censura americana reputava quel «damn» assai indecente e per un po’ Selznick considerò un più timido « I don’t care » («Non m’ importa»), poi decise di mantenere il punto, anche a costo di pagare una multa. Che lezione per i paladini del politicamente corretto di oggi, quelli che un paio d’anni fa fecero ritirare Via col vento dal palinsesto della Hbo accusandolo di essere schiavista.