E’ tragicamente scomparso Christopher Duggan, storico britannico esperto di storia italiana. Il decesso – per suicidio – è avvenuto a novembre, ma solo pochi giorni fa si sono tenute le esequie. Storia in Rete l’aveva intervistato nel luglio 2009. Riproponiamo ai nostri lettori quel colloquio.
di Gabriele Testi da Storia in Rete n. 45-46
Parla lo storico inglese Christopher Duggan, da anni impegnato a studiare l’idea di nazione così come si è sviluppata in Italia dall’Ottocento ad oggi. Invitato dal Festival «èStoria» di Gorizia, Duggan compie un viaggio, ricco di stimoli e richiami, attraverso gli ultimi due secoli di storia italiana: dai Grandi del Risorgimento a Crispi, dall’influenza inglese e francese fino all’avventura coloniale. Tutto fatto da un Paese un po’ più arretrato dei propri vicini ma più avanzato, spesso, della propria classe politica e di molti intellettuali…
Italia, Stato e Nazione: una miscela esplosiva, un composto dalla formula pericolosa e infida, da maneggiare decisamente con cura. Pochi ci provano e chi vi ci si è cimentato con serietà, rigore e coraggio intellettuale, da Gian Enrico Rusconi con il suo «Se cessiamo di essere Nazione», che data al 1993, a Ernesto Galli della Loggia con il proprio «La morte della patria», tre anni più tardi, ha certamente suscitato critiche o consensi che mai sono stati tiepidi: sempre pervasive e accesissime, le osservazioni che si fanno nel nostro Paese attorno ai concetti di patria, identità nazionale e identità italiana (che sono notoriamente cose molto diverse fra loro), portano fatalmente con sé il sostrato valoriale di chi giudica, ma ripudiano sempre e comunque la banalità. E ciò perché da noi qualsiasi cosa non può che essere «di destra» o «di sinistra», mai neutra o apolitica. Eppure, quando a raccontare la storia d’Italia e a esprimere valutazioni scientifiche sono studiosi stranieri, l’attenzione si fa più indifferente presso il pubblico e sui giornali e più sensibile tra i cattedratici. A maggior ragione se le analisi promanano da un ricercatore come il professor Christopher Duggan, che si rifà esplicitamente a una scuola oggettivamente apprezzata anche da noi: l’approccio anglosassone di Denis Mack Smith. Nato a Londra nel 1957 e docente di Storia Italiana nonché direttore del Centre for Advanced Study of the Italian Society dell’Università di Reading, ha ormai alle spalle parecchie indagini storiografiche sul fenomeno della mafia in Sicilia, un’accurata biografia di Francesco Crispi e altri volumi di argomento analogo.
Ma è con il suo «La forza del destino. Storia d’Italia dal 1796 a oggi», pubblicato da Laterza lo scorso anno, che «Chris il forestiero» è entrato a gamba tesa nel dibattito politico e storiografico nazionale. Chi ha fatto mancare il cemento culturale capace di integrare fra loro lo Stato e le due forme più classiche di identità, nazionale e italiana? E perché il secolo e mezzo successivo all’Unità è stato costellato da critiche e ammissioni di colpa circa l’impossibilità di fare, con l’Italia, anche gli italiani e dei buoni cittadini? Introdotti in tempi non sospetti da Massimo D’Azeglio e spesso ripresi da Benito Mussolini, tali dubbi sono quelli di un Paese nel quale le forze politiche si richiamano tuttora esplicitamente a un’Italia ideale, dove si concedono passaporti con nonchalance a oriundi argentini o brasiliani che a malapena parlano l’idioma di Dante, in cui il Tricolore sventola sempre più spesso su tetti e balconi di abitazioni private, ma nel quale non si trova né la voglia né il tempo di «correggere» la Legge 5 marzo 1977, numero 54, che abrogò la festività del 4 novembre perché trent’anni or sono si giudicò che di giorni in cui non si lavorava ce ne fossero anche troppi. E pensare che in Francia e Inghilterra l’11 novembre, giorno del «loro» armistizio con ciò che restava del Reich guglielmino, conserva un’aura di intonsa sacralità. In effetti, pochi simboli come la vittoria del Regio Esercito nella Grande Guerra, anche per la sua eredità di 650.000 caduti (più del doppio dei morti dell’ancora oggi fortemente ideologizzato conflitto civile 1943-1945, tuttora «prigioniero» nel dibattito fra ex repubblichini ed ex partigiani), potrebbe far convergere in un unico fiume i torrenti di identità nazionale, identità italiana e patria. Lo hanno compreso gli organizzatori del V Festival Internazionale di Gorizia, che hanno invitato Rusconi, Galli della Loggia e Christopher Duggan a dibattiti che sono stati i più sentiti dal pubblico giuliano e dai turisti della cultura, nei quali ha eufemisticamente «abbondato» lo scontro dialettico. Essi hanno fornito a «Storia in Rete» l’alibi per un’intensa chiacchierata con lo storico britannico che oggi è maggiormente impegnato a capire l’evoluzione del nostro Paese (dall’occupazione napoleonica al premierato di Silvio Berlusconi), ma anche a chiarire le motivazioni intime delle critiche che gli intellettuali (ecco un’altra anomalia della nostra bella Italia) sono soliti rivolgere «con severità alle istituzioni, ai leader politici e, molto spesso, anche ai propri connazionali…».
Professor Duggan, perché, cioè come nasce, il suo interesse sull’idea di Nazione per gli italiani?
«Il mio interessamento a questi argomenti ha due matrici lontane nel tempo. Innanzitutto, nasce dal fatto che impiegai personalmente lunghi studi e parecchie energie durante gli Anni 90 per svolgere ricerche su Francesco Crispi. Uno degli aspetti più affascinanti nella sua lunga carriera di statista risiede nella concezione che aveva di Risorgimento, che intendeva come una sorta di ‘rivoluzione permanente’ destinata a continuare anche dopo il 1860. Come molti altri intellettuali o politici di allora, sia di Destra che di Sinistra, riteneva che, proprio a partire da quella data, il maggior problema dell’Italia fosse l’assenza di una forte identità nazionale insieme alla necessità di inculcare nelle menti dei 25 milioni di persone che abitavano la Penisola il concetto che l’Italia fosse il ‘loro Paese’, la ‘loro Patria’ e, cosa molto più importante, lo Stato cui dovevano fare riferimento e al quale dovevano rispetto e fedeltà. Il mio secondo motivo di interesse per la materia prende le mosse dall’esteso dibattito, anch’esso risalente agli Anni 90, presente sulla stampa nonché fra gli storici, i sociologi e altri elementi della comunità civile, sulla cosiddetta ‘questione della Nazione’. Fu il momento in cui arrivarono in libreria saggi come ‘Se cessiamo di essere una Nazione’, ‘Finis Italiae’ e ‘Italia: Nazione difficile’. Sembrò, almeno a un’analisi superficiale, che per quanto riguardava la questione della Nazione ci fosse in Italia una rimarchevole continuità con il passato. Ciò non lo si deve ovviamente intendere in senso oggettivo – è in genere molto difficile determinare in quale misura un Paese debba o no considerarsi ‘una Nazione’ – bensì sul piano soggettivo. Si manifestava cioè l’esigenza di comprendere in che termini una Nazione, la sua esistenza in vita o la sua ‘aleatorietà’, dovessero essere considerati un ‘tema’ del quale discutere seriamente».
Lei ha un’idea critica della storia dell’Italia unita: eppure in neanche 150 anni questo Stato si è stabilmente posizionato – già a fine ‘800 – tra i primi Paesi del mondo. Come spiega questa contraddizione?
«La prospettiva critica arriva dal particolare punto di vista sviluppato nel mio libro: è una dimensione valutativa che non è il riflesso di un mio particolare approccio o di una mia tesi personale, apodittica o preconcetta, bensì figlia del pensiero genuino di coloro che furono i maggiori artefici della storia d’Italia negli ultimi due secoli, per meglio dire di coloro che siamo soliti definire ‘gli intellettuali’. Sono stati essenzialmente loro a criticare l’atavica frammentazione del Paese e la sua presunta decadenza; sono stati loro ad attaccare il carattere italiano e a imputare le difficoltà della Nazione ai supposti limiti morali della sua gente: l’oziosità, l’individualismo eccessivo, il materialismo e via dicendo; furono ancora gli ‘intellettuali’ a scagliarsi anche contro il nuovo Stato, lamentando corruzione e l’assenza di una dimensione etica; sono stati loro a censurare la grigia ‘prosa’ della ‘Italietta’ di oggi e a fare raffronti con la ‘poesia’ del Risorgimento. Questi talloni d’Achille, queste criticità, non impedirono all’Italia di diventare inevitabilmente una grande potenza dopo il 1860, benché, ‘l’ultima delle grandi potenze‘. Tali problemi furono pressoché costanti nel tempo e, almeno dobbiamo così immaginarci, parzialmente dovuti alle speranze deluse di un nuovo ruolo nel mondo che il Risorgimento aveva generato in Italia e che pure furono totalmente irrealistiche sulla base delle condizioni socio-economiche del Paese per tutto il XIX secolo. Il Regno d’Italia non aveva le materie prime o le risorse della Gran Bretagna, della Francia o dell’Austria-Ungheria, ma disponeva di una popolazione con un alto tasso demografico, di aree di considerevole sviluppo dell’agricoltura e, nelle regioni settentrionali, anche di piccoli distretti industriali che cammin facendo avrebbero generato la forza motrice per lo straordinario boom economico che l’Italia avrebbe avuto dal 1950 in poi. Lo Stato ebbe anche a disposizione un’imponente flotta e un esercito numeroso dopo il 1860, il che faceva sì che le altre potenze europee non potessero più permettersi di ignorarlo…».
Lei si è dedicato a personaggi e fenomeni tipici del Meridione italiano: Francesco Crispi e la Mafia durante il Fascismo. Pensa che l’immagine italiana sia stata influenzata più dalla cultura e dalla classe dirigente meridionale già nell’Ottocento?
«Non credo si possa affermare che furono la cultura del Sud e la classe politica meridionale a plasmare l’immagine dell’Italia dopo il 1860. Il nuovo Stato nacque precipuamente a immagine e somiglianza del Piemonte: la monarchia, la carta costituzionale, la pubblica amministrazione e i codici legislativi furono tutti sabaudi. E nei primi decenni dell’unità le élite dell’ex Regno di Sardegna ebbero un peso sproporzionato sulla macchina governativa e sul funzionamento dello Stato. Comunque, è stridente e paradossale il fatto che altre zone dell’Italia centrosettentrionale ebbero invece un atteggiamento estremamente ambivalente nei riguardi del nuovo Stato. Non è un caso che proprio in quelle province avrebbero avuto origine e trovato terreno fertile movimenti per così dire ‘sovversivi’ come furono il socialismo, un certo cattolicesimo militante, nonché il nazionalismo e, infine, il fascismo. In conseguenza di ciò fu la classe politica del Mezzogiorno, intrisa di cultura hegeliana, che a partire dagli Anni 80 del secolo decimonono risultò maggiormente capace di identificarsi con il nuovo Stato italiano e di giocare un ruolo importante nell’assicurare l’immagine e il carattere di quest’ultimo. La diffusione dell’idealismo, l’idea di uno Stato ‘forte’ (con le sue anime populistiche e carismatiche) nonché il manifestarsi dell’esigenza di un’espansione oltremare furono per lo più di matrice meridionale. Le dosi sempre più massicce di élite politico-culturali del Sud iniettate nel cuore del neonato Stato unitario, proprio a livello di quadri dirigenti, condizionarono infatti anche l’essenza e la sostanza della vita politica italiana. E fu dal 1880 in poi che la percezione di questa stessa vita politica come dominata dalla corruzione, dall’opportunismo (simbolizzato dal vivace dibattito sul cosiddetto ‘trasformismo’ della classe dirigente) e dalle collusioni con il crimine organizzato crebbe in modo esponenziale…».
Francesco Crispi è stato il padre dell’avventura coloniale italiana. Che giudizio dà dell’uomo politico e che giudizio dà dell’avventura italiana in Africa?
«Ritengo che ci siano aspetti di Francesco Crispi ben più importanti del suo inseguire l’obiettivo delle colonie. A dire la verità, fu sempre un ‘colonialista’, per così dire, abbastanza ‘riluttante’. Il suoi reali propositi erano quelli di modificare gli equilibri di potere in Europa attraverso una guerra decisiva contro la Francia, conflitto in cui l’Italia avrebbe dovuto essere alleata della Germania. Fu soltanto quando fallì in questo tentativo, tra il 1888 e il 1889, che il capo del Governo spostò il suo orizzonte di interessi verso l’Africa. Ma ciò che fu realmente importante nell’esperienza dello statista siciliano non fu tanto la pulsione coloniale in se stessa quanto piuttosto un’aggressiva politica estera. Francesco Crispi aveva un’acuta percezione della debolezza dello Stato – specialmente, la monarchia e le istituzioni rappresentative – proprio per la sfida che gli era portata dai socialisti e dalla Chiesa. Sicuramente vedeva nelle riforme ‘democratiche’ del tipo di quelle che furono varate tra il 1887 e il 1890 un importante strumento di avvicinamento delle grandi masse allo Stato, ma analogamente alla maggior parte dei suoi contemporanei iniziò a ritenere che sarebbe stato il successo in politica estera ad aiutare la creazione di uno Stato-Nazione davvero integrato. Rimpiazzare la Francia come potenza egemone nel mar Mediterraneo avrebbe inoltre consentito di concretizzare nell’Italia post-unitaria i sogni tramandati dai grandi eroi del passato come furono Giuseppe Mazzini e Vincenzo Gioberti, veri e propri pensatori ‘di mestiere’ della ‘italianità’. Allo stesso tempo il miraggio di una ricchezza oltremare, sul suolo africano, avrebbe più facilmente condotto le masse impoverite sotto le ali protettrici dello Stato centrale. In questo senso, Francesco Crispi spianò letteralmente la strada a molte delle politiche dei nazionalisti e, successivamente, a quelle sostenute e attuate da Benito Mussolini».
A parte il fatto di essersi mossi in ovvio ritardo, in che cosa si differenzia secondo lei l’approccio coloniale italiano da quello inglese o francese?
«Come ho indicato in precedenza, il colonialismo italiano prese le mosse più da un’esigenza di politica interna dello Stato – soprattutto, la necessità di alzare il prestigio della corona e delle forze armate – che da interessi economici, almeno definiti in senso stretto. In ciò si differenzia profondamente dalle prime fasi del colonialismo britannico del diciassettesimo e del diciottesimo secolo quando gli interessi economici, spesso di soggetti privati o di compagnie commerciali, furono di prima importanza ai fini della conquista coloniale. In ogni caso, l’espansionismo italiano assomigliò molto di più a quello francese cominciato dopo il 1870, che fu guidato dalla necessità di rafforzare il prestigio della neonata Repubblica e di restaurare la credibilità dell’esercito dopo la bruciante sconfitta di Sedan di quello stesso anno. Così, l’avventura coloniale inaugurata dall’Italia negli anni 90 del 1800 sorse allo scopo di ovviare al contesto, spesso trascurato dagli storici, di severa crisi che interessò la monarchia: nel 1892 i Savoia rischiarono infatti concretamente di venire risucchiati dallo scandalo della Banca Romana. Una delle ragioni per le quali Francesco Crispi fu così disperatamente desideroso di assicurare la vittoria in Etiopia fu per la necessità di salvaguardare la credibilità e l’onore del Re. I Governi italiano e francese si adoperarono per giustificare il colonialismo in termini economici e sicuramente, nel caso dell’Italia, l’idea di una ‘Nazione proletaria’ in cerca di ‘un posto al sole’ per compensare un po’ i milioni di contadini che emigravano nelle Americhe attraverso l’Atlantico ebbe un’enorme risonanza. Ma non c’era alcunché di razionale nel giudicare che la conquista della Libia o dell’Etiopia potessero in qualche modo risolvere i problemi economici del Paese. Come per la Francia, le colonie determinarono soltanto un terribile drenaggio di denaro pubblico».
L’Inghilterra ha spesso esercitato una forte influenza – economica, politica e militare – sull’Italia meridionale (soprattutto durante la seconda fase della monarchia borbonica). In che modo questa influenza ha pesato sul formarsi della cultura delle popolazioni del Mezzogiorno?
«Onestamente, non penso che ci sia realmente stata un’influenza significativa della Gran Bretagna sulla cultura del Sud. Vi furono, però, oggettivamente dei legami stretti tra i Borboni e alcuni settori dell’aristocrazia britannica fra il tardo diciottesimo secolo e l’inizio del diciannovesimo. Furono rapporti che incoraggiarono personaggi come Vincenzo Cuoco ad affermare che il Regno delle Due Sicilie fosse ormai alienato dalle grandi masse popolari. A partire dal 1770 circa, l’Isola ebbe legami economici molto stretti con l’Inghilterra grazie al commercio di vini liquorosi e di zolfo. Questi ‘rapporti privilegiati’ furono rafforzati dall’occupazione britannica della Sicilia durante le guerre napoleoniche. Molto discutibilmente, questa situazione ‘de facto’, questi ‘contatti’ incrementarono, soprattutto tra la nobiltà palermitana, la convinzione che la Sicilia fosse per molti aspetti un qualcosa di ‘unico’, un’entità fatalmente destinata a ottenere l’indipendenza da Napoli. Ma ritengo che tutto ciò sia ben lungi dal poter essere considerato un esempio dell’influenza esercitata da qualcuno su qualcun altro…».
Idem per l’appoggio dato al Risorgimento… In che cosa avete sbagliato, se avete sbagliato, anche voi?
«L’appoggio britannico all’unificazione italiana si fondò su un certo numero di elementi diversi. Uno è di tipo culturale e si radica nella fascinazione della civiltà classica (successivamente in quella del Rinascimento) e, a partire dal 1770, anche su un coinvolgimento romantico che vedeva nell’Italia una terra di estremi emozionali e di libertà assoluta. Per la società anglosassone il culto romantico dell’Italia raggiunse il proprio apice con Lord Byron negli anni immediatamente successivi la battaglia di Waterloo, ma proseguì per molto tempo ancora. In secondo luogo, ci fu una pulsione antipapista che crebbe di intensità negli anni 50 del diciannovesimo secolo per effetto dell’immigrazione irlandese nel Regno Unito e del tentativo del Pontefice di mobilitare i cattolici britannici. Il terzo elemento, forse il più decisivo agli occhi del Governo britannico di allora, fu la volontà di mantenere un equilibrio tra le potenze nell’Europa continentale e di neutralizzare i tentativi di Napoleone III di restaurare l’egemonia francese. Questo perché un’Italia unita avrebbe ovviamente rappresentato una rivale importante per l’Imperatore di Parigi nell’area del Mediterraneo. L’erede di Napoleone Bonaparte ambiva invece a mantenere in Italia una congerie di piccoli Stati controllati dalla Francia invece che sotto protettorato austriaco. Gli inglesi, intenzionati a bloccarne i piani, appoggiarono la spedizione di Giuseppe Garibaldi. Il venir meno delle prospettive di una dominazione francese o austriaco-tedesca dell’Europa avrebbe permesso infatti alla Gran Bretagna di restarsene fuori dal Vecchio Continente più a lungo che altrimenti. Ma c’è da dire che, alla resa dei conti, un’Italia riunita in uno Stato indipendente iniettò nella politica continentale quell’ulteriore aliquota di instabilità che si sarebbe rivelata uno dei fattori determinanti nella conflagrazione delle due Guerre Mondiali».
Sono molti gli storici inglesi che, tradizionalmente, si occupano di Italia pur avendone un’idea critica, anche troppo. Come spiega tutto questo interesse per un Paese che vi piace così tanto criticare?
«E’ sicuramente vero che ci furono dei pubblicisti e degli scrittori inglesi – e anche qualche storico, a dire il vero – che in passato adottarono un approccio moralistico e a volte accondiscendente nei confronti del passato e della cultura italiani. Tuttavia, non è stato questo il caso della grande maggioranza degli storici di professione che si sono cimentati sulla materia negli ultimi trent’anni. Se questi ultimi, a mio avviso, hanno assunto in massima parte un approccio ‘critico’, ciò deriva dal fatto che si sono ‘appiattiti’ su un’importante e tradizionale abitudine degli italiani stessi (in special modo, degli intellettuali) di giudicare severamente le istituzioni, i leader politici e, molto spesso, anche i propri connazionali. E’ davvero impossibile, quando si studia la storia italiana, non assorbire queste considerazioni e queste ‘forme mentis’, peraltro estremamente negative, all’interno della propria narrazione scientifica, soprattutto perché, come ho cercato di spiegare nel mio ultimo libro, esse hanno avuto un enorme impatto sui processi concreti costitutivi dell’Italia moderna».
A proposito di critiche. Non è il suo caso, ma che cosa ne dice di tutti quegli studiosi – soprattutto anglosassoni – che scrivono di Italia ma si basano solo su testi scritti in inglese e magari non parlano neanche italiano?
«Non si può scrivere seriamente della storia d’Italia senza una dettagliata conoscenza della lingua italiana così come delle fonti autentiche. Vi includo, ovviamente, la storiografia in italiano straordinariamente ricca che è stata pubblicata negli ultimi cento anni abbondanti.
Che cosa salverebbe della storia italiana? E che figura o che momento storico ci invidia?
«Nella storia italiana vi furono alcune magnifiche conquiste. Parecchie delle figure chiave del Risorgimento furono uomini (e donne) di enorme statura morale e politica e, abbastanza spesso, anche dotate di un’eccezionale coraggio personale. Gli esempi di Camillo Benso di Cavour, Bettino Ricasoli, Marco Minghetti, Giuseppe Zanardelli, Filippo Turati e Giovanni Giolitti sono quelli di uomini che furono capaci di distinguersi nettamente anche rispetto alla media dei pensatori della loro epoca. Pure la Repubblica nata nel Dopoguerra produsse personalità di immenso profilo intellettuale, come Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti. Economicamente, quella italiana fu una storia di enormi successi: basti pensare alle differenze tra l’Italia del 1880 e quella di un secolo più tardi. E sul piano culturale, naturalmente, il vostro Paese è stato anche la fucina e la palestra di alcuni dei migliori scrittori, pensatori e musicisti del diciannovesimo e del ventesimo secolo: da Giacomo Leopardi a Giuseppe Mazzini, da Giovanni Verga a Giuseppe Verdi, da Giousè Carducci a Giacomo Puccini, da Benedetto Croce ad Antonio Gramsci…».
Lei è considerato un allievo di Denis Mack Smith: che cosa accetta e che cosa rifiuta del suo giudizio sull’Italia?
«Il professor Mack Smith non ha cercato mai né in alcun modo di imporre i propri giudizi a qualcuno dei suoi allievi. Egli appartiene, ovviamente, a una generazione di studiosi diversa dalla mia, quella che sperimentò il fascismo e la Seconda Guerra Mondiale in prima persona. Penso che ciò di cui gli sarò sempre grato è un assoluto rispetto per le fonti. E’ arduo immaginare uno storico dell’Italia moderna che abbia letto più cose e le abbia studiate più intensamente di lui o che abbia avuto accesso a più archivi pubblici e privati, spesso molto rari o ritenuti irraggiungibili. Inoltre, come molti studiosi britannici della sua epoca, pensa che la ’buona storia’ si basi su una chiarezza di pensiero e su una correttezza di analisi che la renda semplice da leggersi. Condivido con lui una scarsa stima per gli storici che scrivono in una maniera inaccessibile: sospetto che tutto ciò sia molto spesso soltanto una ‘maschera’ per nascondere una povertà di concetti e di idee…».