La Venezia Giulia è un Giano bifronte. Il confronto fra le cartografie prodotte in Italia – da una parte – e in Austria Ungheria, Iugoslavia (e simpatizzanti) da un’altra mostra due situazioni etno-linguistiche della Venezia Giulia radicalmente opposte. La stessa cosa vale per le rilevazioni demografiche che ne sono alla base. E come è immaginabile ciascuna pro domo sua.
La cartografia italiana estende la parte latina della popolazione giuliana arrivando a comprendere ampie fette dell’entroterra istriano. Invece le cartografie anti-italiane (o filo-slave, a seconda del punto di vista) tendono a ridurre la presenza italiana a poche isole urbane in un mare slavo.
Non è compito di questo articolo avanzare critiche al modus operandi dei demografi che hanno realizzato i censimenti prebellici e postbellici. E’ invece necessario concentrarsi sulla diversa concezione di “nazionalità” che c’è in Italia rispetto a quella dell’area slavo-tedesca. Da noi la nazionalità, pur non essendo del tutto distinta dal sangue, prevede comunque un’adesione volontaria a una realtà culturale. La nazione, insomma, è “il plebiscito permanente“: un continuo esercizio di volontà di aderire a una compagine sociale e culturale. La visione opposta – basata sui concetti di “sangue e terra” – invece prevede una prevalenza del dato biologico su quello individuale e volontario dell’appartenenza nazionale: se uno nasce di un’etnia, resta tale.
Italiani, italianizzati, slavi
Non entreremo nel merito di queste due tesi. Ci limitiamo a guardare il loro effetto sulla visione che si aveva del problema giuliano nei primi decenni del XX secolo: se si considera il punto di vista italiano le popolazioni dell’entroterra istriano, ancorché di origine balcanica (slave ma non solo: albanesi, valacche, illiriche… tutte conseguenze delle ondate migratorie causate dall’invasione ottomana dei Balcani fra XV e XVI secolo e dalla fame di manodopera agricola da parte veneziana) sono considerabili italianizzate, perché la gran parte della popolazione comprendeva perfettamente l’italiano o le sue varianti e parenti dialettali.
A questo si aggiungeva la presenza di dialetti (come lo “schiavetto” o la parlata peculiare di Sansego) composte da una indistricabile mescolanza di elementi linguistici latini e slavi e la stessa latinizzazione dei dialetti croato-istriani, che alla base grammaticale slava univano vocabolari larghissimamente latinizzati, come il ciacavo antico. Dal punto di vista opposto, invece, anche popolazioni perfettamente italianizzate dovevano invece considerarsi slave, mercé le loro origini: una concezione che è in parte alla base delle registrazioni anagrafiche parrocchiali con cognomi slavi o slavizzati operate dal clero filo-asburgico ai danni degli italiani nella seconda metà dell’Ottocento.
Esempio calzante di queste due concezioni è la parabola di Guglielmo Oberdan: considerato italiano dai filo-italiani (da se stesso per primo) e sloveno dai filo-slavi (viste le origini etniche).
Realizzare dunque una carta geografica che illustri i due punti di vista è complesso ma non impossibile. Quella che vedete in questo articolo è un lavoro preliminare, che necessita ancora molti aggiustamenti.
In particolare è necessario controllare bene la dimensione dei centri urbani. Nell’assegnarli a una categoria o a un’altra si è tenuto conto del censimento italiano del 1921, che considerava gli italiani e gli italianizzati come un’unica entità etnolinguistica: un’apparente forzatura del dato meramente etnico che tuttavia troverà conferma proprio nei numeri della diaspora giuliana nel secondo dopoguerra. A fuggire dalla conquista jugoslava non sono soltanto gli italiani etnici, ma anche gli italianizzati, in sostanza quasi l’intera comunità italofona della Venezia Giulia.
Un’ipotesi di cartografia etnolinguistica
In futuro, sperando anche nel contributo di lettori attenti e dotati di fonti approfondite finora non consultate, sarà anche molto interessante confrontare il dato etnolinguistico con quello dell’alfabetizzazione dell’Istria: infatti è un’ipotesi ragionevole (ancorché tutta da verificare) che le aree dove prevale il bilinguismo (ossia dove gli slavi utilizzano anche l’italiano) sono paradossalmente quelle in cui più bassa è l’alfabetizzazione delle masse rurali (qualcosa di analogo si nota nell’Italia profonda, essenzialmente ovunque bilingue poiché la popolazione parla tanto il proprio dialetto quanto la lingua italiana da almeno 8-10 secoli).
Le popolazioni agricole avrebbero sviluppato il bilinguismo per mantenere rapporti, spesso di subordinazione lavorativa, con le città (strettamente italofone) dove si tenevano i mercati e le fiere e con gli italiani, più ricchi e a volte proprietari delle terre dove gli slavi svolgevano il ruolo di mezzadri e fittavoli. Laddove invece più forte era l’alfabetizzazione, essa andava di pari passo anche con una più profonda consapevolezza nazionale degli individui ma anche con una maggiore indipendenza economica oppure con legami più stretti con le comunità slave dell’entroterra carinziano e croato. Tutte cose che rendevano la conoscenza dell’italiano superflua.
Dunque l’area bilingue può coincidere con una vasta “fascia grigia” di popolazioni d’origine balcanica, scarsamente alfabetizzata e potenzialmente aperta all’inclusione in uno o nell’altro Stato nazionale. Una fetta importante di popolazione che poteva essere “tirata per la giacchetta” dai demografi come dai politici per sostenere la tesi di una prevalenza italiana o slava nella regione.