Luglio 1573: davanti all’Inquisizione di Venezia si svolge un processo surreale che vede come accusato addirittura il grande pittore Paolo Veronese. La sua colpa? Aver dipinto un’«Ultima cena» troppo affollata, ricca di dettagli e personaggi secondari, in un’atmosfera lussuosa e poco mistica. Durante la Controriforma non si potevano fare questi sbagli e poco importa che l’artista si sia difeso ricordando ai giudici che «noi pittori ci pigliamo la licenza che si pigliano i poeti e i matti…». Alla fine Veronese per rimediare cosa fece? La cosa più semplice: cambiò il titolo del quadro…
di Massimo Centini, da Storia in Rete n. 170
Paolo Caliari detto il Veronese (1528-1588) è un pittore che ha lasciato una traccia rilevante nella storia dell’arte rinascimentale come attesta il suo linguaggio poetico sorretto da un notevole livello tecnico. Nativo di Verona, trascorse una parte fondamentale della sua vita a Venezia, dove ancora si trova la sua abitazione in San Samuele. Le notizie biografiche su di lui non sono molte, ma ci consentono comunque di farci un’idea abbastanza chiara della sua esperienza artistica ed esistenziale, quest’ultima adagiata in un modus vivendi scandito dal lavoro e dalle normali occupazioni di un buon padre di famiglia. Molte le committenze ricevute per una rilevante serie di pitture che, nella prevalenza, abbracciavano tematiche provenienti dalla mitologia e soprattutto dall’Antico e Nuovo Testamento. Stranamente, Giorgio Vasari (1511-1574) nella sua nota opera «Vita de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti italiani» (1550/68) non ha dedicato un capitolo al Veronese, ma si è limitato ad alcuni accenni in quello dedicato a un altro pittore veneto, Battista Franco.
Nel catalogo del Veronese occupano un ruolo importante le «Cene», tra le quali vi è quella che suscitò l’interesse dei giudici del Tribunale dell’Inquisizione e che vedremo tra breve. Le «cene» del Veronese, pur avendo la loro ispirazione nella tradizione evangelica e cristiana, sono caratterizzate da un impianto che privilegia la rappresentazione scenografica, con ridondanze destinate a rendere particolarmente vive e reali le ricostruzioni. Quattro opere sono dedicate alla cena a casa di Simone il Fariseo (1556-1572), una alle nozze di Cana (1562/63), una alla cena di san Gregorio Magno (1572) e l’ultima alla cena in casa Levi (1573), anche se originariamente il suo titolo era «L’ultima cena»: un titolo che fu all’origine della comparizione di Paolo Veronese al cospetto dell’Inquisizione.
L’Inquisizione veneziana fu attiva nella città lagunare dalla seconda metà del XIII secolo e affidata alla guida dei francescani; tuttavia, fino all’inizio del XVI secolo non si rivelò particolarmente cruenta ed ebbe un’impostazione dominata da una maggiore tolleranza rispetto a quelle che erano le prerogative dell’Inquisizione medievale. Le sue caratteristiche però variarono in concomitanza della riorganizzazione dell’Inquisizione romana con l’istituzione del Sant’Uffizio e le problematiche innescate dalla riforma protestante. Ne conseguì che il potere dell’Inquisizione venne ripartito da un lato tra il nunzio e l’inquisitore capo (di fatto referenti del papa), dall’altro tra il patriarca e i cosiddetti «Savi sopra l’eresia» (una sorta di magistratura il cui ruolo era quello di perseguire l’eterodossia). È davanti a quel tribunale, il 18 luglio 1573, che comparve Paolo Veronese. La sua convocazione, presumibilmente al cospetto dell’inquisitore capo Aurelio Schilino da Brescia, fu determinata dalla tela «L’ultima cena». Un olio di notevoli dimensioni (5,55 x 12,80 m), attualmente conservato nella Galleria dell’Accademia di Venezia, che fu commissionato all’artista dai domenicani della basilica dei Santi Giovanni e Paolo della città lagunare. I giudici ritenevano che l’eccessiva presenza di personaggi secondari e poco adatti al soggetto dell’opera, contribuisse a sminuirne le valenze teologiche, ma anche devozionali, che invece avrebbero dovuto essere preminenti, illustrando un evento come l’Ultima Cena. Contestata, per esempio, la presenza di soldati lanzichenecchi, giullari e invitati al convivio con atteggiamenti affini a quelli adatti per una festa; oggetto di accese critiche anche la raffigurazione di un servitore colpito da emorragia al naso. Dieci anni prima, il Concilio di Trento aveva puntualizzato sull’uso e il ruolo delle immagini sacre, rispondendo alle accuse di idolatria mosse dai protestanti; appare quindi evidente che l’occhio critico dei giudici inquisitori risultasse ulteriormente affinato e mosso dalla volontà di non offrire il fianco alle accuse eterodosse. L’arte sacra aveva il compito e il dovere di allinearsi perfettamente agli indirizzi canonici e gli inquisitori dovevano sorvegliare al fine di garantire la conservazione dell’ortodossia.
Dal verbale del processo a Veronese – pervenutoci integralmente – abbiamo modo di ripercorrere le fasi di un dibattimento, oggi ovviamente anacronistico, che mostra la grande attenzione dimostrata dalla Chiesa per il linguaggio artistico, offrendoci così interessanti spunti storici, ma anche psicologici. Certamente meno grave di altri processi celebrati dal temuto Tribunale, quello contro il Veronese se da un lato rivela la volontà inquisitoria di imprigionare l’arte all’interno del dogmatismo religioso, dall’altro dimostra – attraverso le risposte fornite ai giudici dall’inquisito – la necessità dell’artista di mantenere la propria libertà creativa, quella stessa libertà che Veronese definiva: «licenza» e prerogativa «dei pittori, dei poeti e dei matti…». Si consideri che l’artista, oltre a essere un pittore tra i più importanti della città, era noto per essere particolarmente attento all’ortodossia, e aveva sempre cercato di non alterare i principi cristiani adeguandosi alle direttive sull’arte religiosa del suo tempo. Pertanto, quella convocazione alla chiesa di San Teodoro – la sede del Tribunale dell’Inquisizione – gli dovette risultare enigmatica e certamente anche piuttosto inquietante…
Osserviamo adesso il contenuto del verbale per cercare di capire in quale misura il Veronese rischiò di essere riconosciuto se non eretico, quantomeno colpevole di grave blasfemia. Al cospetto dell’inquisitore, il pittore indicò la sua professione: «Io dipingo et fazzo delle figure». Inoltre, rispondendo al giudice, affermò di non conoscere le motivazioni della convocazione; quando gli si chiese se però potesse immaginarle, rispose così: «Per quello, che mi fu detto dalli Reverendi Padri, cioè il Prior de San Zuan Polo, del qual non so il nome, il qual mi disse, che l’era stato quì, et che Vostre Signorie Ill.me gli aveva dato commission ch’ei dovesse far far la Maddalena in luogo del un Can, et mi ghe risposi, che volentiera averia fatto quello et altro per onor mio e del quadro; ma che non sentiva che tal figura della Maddalena podesse parer che la stesse bene per molte ragioni, le quali dirò sempre che mi sia dato occasion che le possa dir». Al consiglio di sostituire il cane con la Maddalena, fornito dal priore del convento di San Giovanni, il Veronese si disse poco propenso per motivi compositivi, quindi esclusivamente tecnici. A quel punto il giudice domandò lumi sull’opera che il pittore descrisse rispondendo puntualmente, ma ammettendo: «Ghe sono molte figure, le quali per esser molto che ho messo suo il quadro, non me le ricordo». Poi, sempre in risposta al suo interlocutore, confermò di aver eseguito altre «Cene» che, come abbiamo visto, furono piuttosto diffuse nella sua produzione.
Il giudice quindi si soffermò su alcuni soggetti della pittura: «Ei dictum: In questa Cena, che avete fatto in S. Giovanni Paolo che significa la pittura di colui che li esce il sangue dal naso?». La risposta giunse spontanea: «L’ho fatto per un servo, che per qualche accidente, li possa esser venuto il sangue dal naso». Quando gli si chiese quale fosse il ruolo di «quelli armati alla Todesca vestiti con una lambarda per uno in mano?», l’artista disse di aver bisogno di un po’ di tempo per fornire una risposta esaustiva: «El fa bisogno che dica qui vinti parole!». Ottenuta l’autorizzazione dichiarò: «Noi pittori ci pigliamo la licenza che si pigliano i poeti e i matti, e ho fatto quelli dui Alabardieri uno che beve, et l’altro che magna appresso una scala morta, i quali son messi là, che possino far qualche officio parendomi conveniente che ‘l patron della casa che era grande e richo, secondo che mi è stato detto, dovesse aver tal servitori». Poi l’inquisitore volle conoscere il significato di «Quel vestito da buffon con il pappagallo in pugno, a che effetto l’avete depento in quel telaro?». Ancora una volta la risposta fu spontanea: «Per ornamento, come si fa».
Lo sguardo indagatore del giudice si concentrò sulla tavola e specificatamente sull’identità dei commensali; Veronese li indicò nei dodici Apostoli. Per l’inquisitore l’atteggiamento di alcuni di quei personaggi non sembrava però consono al tema della pittura; in effetti anche dalla descrizione dell’artista traspare che la vena mistica di alcuni dei soggetti risultava piuttosto limitata. Pietro «El guarda l’agnello per darlo all’altro Capo della tola». Un altro «che ha un piron [forchetta, NdA], che si cura i denti». Inoltre, per il giudice nella tela vi erano troppe persone e lo sfarzo globale risultava sproporzionato; ma per l’artista, le figure avevano un ruolo prevalentemente pratico prima che simbolico: «Se nel quadro li avanza spazio io l’adorno di figure, secondo le invenzioni». Per l’inquisitore mancavano le dramatis personae che avrebbero dovuto essere protagoniste nella ricostruzione della scena evangelica, invece risultavano quasi soffocate da una grande quantità di personaggi privi di aderenze al testo sacro. Inoltre, anche la scenografia, tra quinte architettoniche che riverberano le realizzazioni palladiane, poco avevano da spartire con l’ambiente raccolto, atto a sottolineare sentimenti devozionali, in cui avrebbe dovuto svolgersi l’Ultima cena. L’interrogante avanzò l’ipotesi che alcuni dei soggetti inseriti fossero richiesti dalla committenza: «se da alcuna persona vi è stato commesso che Voi dipingeste in quel quadro Todeschi et buffoni et simili cose». In realtà il pittore dichiarò di aver dipinto rispondendo esclusivamente alla sua vena creativa. Per il giudice però non era ammissibile che «alla Cena ultima del Signore si convenga dipingere buffoni, imbriachi, Todeschi, nani et simili scurrilità». Veronese convenne che il giudice aveva ragione, in fondo non aveva altra possibilità. L’inquisitore pose in evidenza che certe aperture eccessivamente laiche in un dipinto a tema religioso potessero facilmente scivolare nell’eresia: «Non sapete voi, che in Alemagna et altri luoghi infetti di eresia sogliono con le pitture diverse et piene di scurrilità et simili invenzioni dileggiare, vituperar et far scherno delle cose della Santissima Chiesa Cattolica per insegnare mala dottrina alle genti idiote et ignoranti?».
Il dibattimento si concluse con una parziale ammissione di colpa da parte del Veronese, anche se l’artista di fatto sostenne fino alla fine le ragioni della pittura: «Signor Illustrissimo che non lo voglio defender; ma pensava di far bene. Et che non ho considerato tante cose, pensando di non far disordine nisuno, tanto più che quelle figure di Buffoni sono di fuora del luogo dove è il nostro Signore». La sentenza fu meno gravosa del previsto: Veronese fu condannato alla correzione degli errori al fine di emendare ogni possibile apertura in direzione anticattolica. Di certo la libertà dell’artista fu riportata nell’alveo controriformista così come i buffoni, pappagalli, ubriachi, nani e «todeschi», che tanto disturbavano i difensori dell’ortodossia. L’alchimia della trasformazione si manifestò in modo inatteso: sulla balaustra dipinta in primo piano e dominante la struttura architettonica che inquadra la scena principale, troneggia il cartiglio con il nuovo titolo della grande pittura «Cena in casa Levi». Si tratta del convito in casa del pubblicano destinato a diventare l’apostolo Matteo. Con l’ausilio della magia delle parole, Veronese riuscì a mettere d’accordo le imposizioni del Tribunale dell’Inquisizione e parzialmente la libertà creativa dell’artista. Soprattutto riuscì a salvare un’opera immortale, sottraendola al vortice demonizzante di chi la voleva rinchiudere tra gli «errori» dell’eresia. Paolo Veronese quindi non finì tra i tanti accusati di crimini contro la fede per il rotto della cuffia, continuando così la sua opera liberamente, forte della «licenza dei poeti e dei matti»…