La più grande strage italiana del secondo dopoguerra potrebbe non essere l’attentato alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, ma l’orrenda carneficina avvenuta sulla spiaggia di Vergarolla, nella periferia occidentale di Pola, quando un centinaio di italiani caddero vittime di una serie di esplosioni, provenienti da alcune mine navali ammassate nei pressi della spiaggia. Il condizionale è dovuto unicamente al fatto che le deflagrazioni furono così devastanti da non permettere una conta definitiva dei morti, la cui stima va dai 65 a oltre 100 (probabilmente non furono meno di 80, comunque).
di Mattia Pase dal del 18 agosto 2016
Si svolgeva in quel giorno, il 18 agosto 1946 (esattamente 70 anni fa), una gara di nuoto che aveva richiamato in riva al mare ancora più gente del solito, la Coppa Scarioni, in un periodo di particolare tensione internazionale, particolarmente palpabile a Pola, enclave italiana circondata da terre oramai amministrate dagli Jugoslavi.
Pola no, Pola faceva ogni sforzo per restare attaccata all’Italia – italiana era non la maggioranza, ma la quasi totalità della popolazione – e cercava di riprendere a vivere, in attesa dell’esito della Conferenza di Pace di Parigi, che ne avrebbe deciso il destino. Vivere significa affrontare con coraggio il proprio futuro, e in quel momento nulla più di una giornata al mare, con le famiglie sulla spiaggia e i ragazzini impegnati a contendersi un trofeo di nuoto, poteva meglio rappresentare lo sforzo dei Polesani di guardare avanti.
I quali Polesani si erano espressi chiaramente, in merito all’attaccamento alla Patria: sui 31.000 abitanti della città, 28.000 avevano chiaramente espresso, pochi giorni prima della strage, la loro intenzione di abbandonare la città nel caso in cui fosse stata assegnata alla Jugoslavia. Abbandonare tutto, dalla casa in cui erano nati e cresciuti al cimitero in cui erano sepolti i loro cari, e per sempre, pur di rimanere Italiani. All’improvviso, le mine, teoricamente disinnescate dal genio militare, esplodono. E la deflagrazione impressionante investe e dilania centinaia di persone, almeno sessantacinque delle quali restano uccise, fra la spiaggia e il mare. Di quei sessantacinque morti, quindici non arrivavano a dieci anni d’età.
Per anni una cortina fumogena di ambiguità, connivenze e convenienze politiche ha cercato di nascondere la verità, anche se – come appurato da diversi storici, fra cui Gaetano Dato e William Klinger, che hanno a lungo studiato quegli avvenimenti negli archivi di Londra, Washington, Zagabria e Belgrado – sin da subito fu evidente agli Inglesi, che amministravano la cosiddetta Zona A del Territorio Libero di Trieste, e quindi la città di Pola, che si era trattato di un attentato. E le responsabilità dell’attentato non possono non ricadere, nonostante siano state ipotizzate e studiate piste diverse, sull’OZNA, la polizia segreta di Tito. Non solo perché di fatto quella strage diede il colpo di grazia alla comunità italiana della città istriana, ma perché nelle settimane precedenti altri attacchi erano stati programmati e messi in atto ai danni degli Italiani in tutta la Venezia Giulia, a partire dalle fucilate del 30 giugno a Pieris, contro il passaggio del Giro d’Italia, per arrivare a un attentato simile a quello di Vergarolla, fortunatamente fallito, contro una gara di canottaggio nel Golfo di Trieste, una settimana prima della strage polesana.
Ogni documento che potesse attribuire direttamente la responsabilità all’OZNA è stato ovviamente distrutto, come da istruzioni che all’epoca venivano date agli agenti jugoslavi. Ma rimane, incancellabile, la “confessione” dell’allora dirigente comunista jugoslavo Milovan Gilas: «Nel 1946 io e Kardelj andammo in Istria a organizzare la propaganda antitaliana (…) Bisognava indurre tutti gli italiani ad andar via con pressioni di ogni tipo. E così fu fatto». Oggi sappiamo che fra le “pressioni di ogni tipo” evidentemente rientrava anche la strage di uomini, donne e bambini sulla spiaggia di Pola.