di Marcello Veneziani da www.marcellovenenziani.com del 20 novembre 2025
Il venti novembre di cinquant’anni fa finiva la Spagna antica, rimasta a lungo alle soglie della modernità. Moriva, dopo una lunga agonia, con il generalissimo Francisco Franco, caudillo di Spagna. Franco aveva preservato la Spagna dal comunismo, dall’entrata nella seconda guerra mondiale e dalla scristianizzazione, con un regime paternalistico, cattolico e autoritario dopo una sanguinosa guerra civile.
E aveva trattenuto l’avvento della modernità. Consegnava la Spagna alla monarchia costituzionale dei Borbone, per la ripresa della libertà, della modernità e della democrazia. Su quella basi, pacificate, la Spagna scoprì la modernità ed ebbe un formidabile rilancio soprattutto con il socialista Gonzales e poi con il conservatore Aznar. La sua dittatura era durata a lungo, dalla fine degli anni trenta alla metà degli anni settanta. Franco era l’ultimo superstite di un’altra epoca, spazzata via dalla storia. Cinque anni prima di lui era morto a Lisbona anche Salazar, l’altro dittatore iberico, d’impronta cattolica, conservatrice e nazional-corporativa. La Spagna cattolica, militare, nazionalista e tradizionalista guidata da Franco aveva debellato la Spagna repubblicana, comunista laicista e antifascista.
Benché periferico, per decenni il franchismo fu il bersaglio ideale per concentrare in una sola figura il Nemico Assoluto della modernità e della sinistra: golpista, militarista, fascista, clericale, servo degli americani. Un riassunto ideale del Nemico e la rappresentazione militare di Dio, Patria e Famiglia in versione antimoderna. In Italia, col paradigma franchista, si prendevano due piccioni con una fava: il fascismo e la Dc, rispetto ai quali Franco era ritenuto l’anello di congiunzione, la dimostrazione vivente del clerico-fascismo, sintesi reazionaria tra militare, clericale e dittatura. Il clerico-fascista è la figura opposta al catto-comunista. Si denunciava anche il sostegno della Chiesa, dell’Opus dei, e degli agrari al franchismo. In realtà, la vittoria di Franco segnò una duplice sconfitta: una maggiore del comunismo e dell’anticattolicesimo repubblicano, suo alleato; e una minore, ma non meno significativa, del falangismo, il movimento nazional-rivoluzionario. La sua figura chiave era il marchese Josè Antonio Primo de Rivera, fondatore del Movimento falangista, figlio del generale Miguel, dittatore negli anni venti. Una lettura di comodo racconta che la Falange diventò una colonna del regime di Franco che poi instaurò in Spagna il culto di Josè Antonio. In realtà le cose andarono diversamente.

La Falange nacque per realizzare una rivoluzione ulteriore al socialismo stesso, che partendo dal socialismo e dal sindacalismo si volgesse poi in chiave nazionale e spirituale. Contro il ripristino dell’ordine sognato da conservatori e militari, Josè Antonio nel manifesto della Falange sognava un ordine nuovo: “Nessuno ci supera nella rabbia e nel disgusto verso l’ordine conservatore, affamatore di masse enormi e tollerante verso le dorate oziosità di pochi”. E aggiungeva: “Dopo gli scontri, ogni collaborazione con gli elementi dell’ordine è espressamente proibita”. I falangisti sognavano un regime nazional-sindacalista, ripudiavano “il sistema capitalista”, come è scritto nel loro programma. Davano ragione a Marx sulla concentrazione della ricchezza e sull’estensione universale del proletariato ma respingevano il suo materialismo e il suo internazionalismo.
Criticavano la monarchia e i propositi “reazionari e controrivoluzionari”, accusavano la sinistra perché priva di sensibilità nazionale e la destra perché priva di sensibilità sociale. Simpatizzavano per il fascismo, considerandolo “un’iniezione di vita” “per rianimare la tradizione” e amavano Mussolini che Josè Antonio andò a trovare nel ’33 a Palazzo Venezia e da cui fu aiutato. Invece non amava il Fhurer e scriveva: “Con Hitler non ci intenderemo mai. Non crede in Dio”. E detestava il razzismo. “Che non ci si parli della razza, l’impero spagnolo non fu mai razzista; anzi, raggiunse l’immensa gloria proprio per aver unito uomini di tutte le razze”, scriveva Josè Antonio sulla rivista falngista non a caso battezzata “Il fascio”. A Franco lo univa la comune ispirazione patriottica e religiosa. L’unica lettera che Josè Antonio scrisse a Franco rimase senza risposta; i due s’incontrarono una sola volta, prima dell’alzamiento al matrimonio di Serrano Suner, amico d’infanzia di Josè Antonio e cognato di Franco (in Spagna si parlava ironicamente di “cunadismo”, cognatismo).
Quando Josè Antonio fu catturato dai “rossi” e finì nella prigione di Alicante, un gruppo di falangisti guidati da Agustin Aznar voleva liberarlo. Franco non fece nulla per sostenerli, anzi, avrebbe boicottato l’impresa. Sembra di leggere la storia di Togliatti e Gramsci: c’era la possibilità di liberarlo attraverso uno scambio di prigionieri ma i comunisti preferirono avere un martire piuttosto che salvare un compagno scomodo e sempre più critico verso lo stalinismo.
Josè Antonio ne era consapevole. Infatti nella sua unica intervista in carcere al giornalista inglese Jay Allen, disse che se vincerà Franco probabilmente “io tornerò in questa prigione o in un’altra”. Questo spiega perché il successore di Josè Antonio alla guida della Falange, Manuel Hedilla, organizzò un golpe contro Franco per instaurare un governo rivoluzionario. Un po’ come accadde in Italia coi dannunziani antifascisti di Alleanza Nazionale. Il tentativo fu sventato e finì con quattro condanne a morte poi commutate in ergastolo. La differenza tra Franco e Josè Antonio è più netta di quella che corre tra movimento e regime fascista, per usare le categorie di Renzo De Felice per spiegare il fascismo al potere; ma è anche la differenza tra Stalin e Trotskj o tra Castro e Che Guevara. Josè Antonio, ucciso dai repubblicani spagnoli a fine novembre del ’36, scrisse: “La bandiera è stata issata. Andiamo a difenderla allegramente, poeticamente…il nostro posto è fuori, all’aria libera, sotto la notte chiara, arma in spalla e in alto le stelle”. Romanticismo politico. Poi Franco unificò con la forza del realismo falangisti e carlisti.
Al di là dell’ossequio formale per la Falange, Franco instaurò un regime paternalistico e conservatore, autoritario ma non totalitario, gradito ai poteri economici e alla Chiesa ma anche a larga parte degli spagnoli. Non un regime di mobilitazione di massa ma un regime repressivo, proteso a spoliticizzare la società spagnola. Non abbracciò il fascismo e il nazismo, non li seguì nell’avventura tragica e letale della guerra mondiale e del razzismo, si legò poi agli Stati Uniti. Spoliticizzò la società spagnola, sviluppò cautamente il Paese e infine ricondusse pacificamente la Spagna alla monarchia costituzionale. Legò la Spagna alla Chiesa e alla Famiglia. Di nascosto anche l’Inghilterra, la Francia e il capitalismo mondiale tifarono insieme alla Chiesa e al Papa per Franco contro l’instaurazione di un regime anticlericale, anticapitalista e filostaliniano in Spagna, che nella guerra civile aveva massacrato suore e religiosi, ma anche anarchici e antifascisti non allineati alla causa di Stalin. Cosa sarebbe stata l’Europa se fosse rimasta dentro la tenaglia di un regime sovietico a est e un regime filostaliniano a ovest, in Spagna? Franco fu visto come l’estremo difensore dell’Occidente. Del resto, George Orwell, Simone Weil e Randolfo Pacciardi, partiti per difendere in Spagna la repubblica, tornarono sconcertati dagli orrori dei compagni comunisti. Il franchismo fu considerato da molti un male necessario, come argine al peggio. Restò il mito di Josè Antonio, El Che Guevara della rivoluzione falangista.
Il regime autoritario di Franco, a differenza dei regimi comunisti, non eresse muri e fili spinati per impedire che la gente scappasse dalla Spagna, da cui era possibile espatriare; non ebbe lager né gulag di sorta, deportazioni, irregimentazioni e persecuzioni di massa; come segno di pacificazione eresse nella Valle de Los Caidos un luogo monumentale in cui seppellire a fianco i caduti di entrambi i versanti. Sarà poi la Spagna democratica e progressista di Zapatero e di Sanchez a disseppellire Franco e i caduti della sua parte con una macabra e incivile profanazione delle tombe e a cacciare i cadaveri dalle tombe con un rito tra il tribale e il manicheo. Un rigurgito brutale di guerra civile e di razzismo ideologico, fuori dal tempo e da ogni pietas. A tanto non era arrivato nemmeno il dittatore Franco.
La Verità – 20 novembre 2025


