La lapide posta al numero civico 14 di via San Bernardino, cuore del vecchio quartiere operaio San Paolo, mostra un giovane nell’atto di buttarsi giù dalla finestra, levando il pugno chiuso. Più o meno come racconta la motivazione che ha portato la Presidenza della Repubblica a concedere la medaglia d’oro al valor militare. Poche centinaia di metri più in là si trovano la via a lui dedicata e un mural del centro sociale Gabrio, che lo raffigura in compagnia del «guerrillero heroìco» Che Guevara.
di Giorgio Ballario e Paolo Coccorese da La Stampa del 26 ottobre 2013
Dante Di Nanni è universalmente noto come eroe della Resistenza, ma per Torino e in particolare borgo San Paolo è ancora qualcosa in più. La sua fine rocambolesca e cinematografica è immortalata nel racconto di Giovanni Pesce, il famoso partigiano dei Gap noto per aver ucciso, in quei mesi terribili, il fascista condirettore della «Gazzetta del Popolo», Ather Capelli: «E mentre attorno continuano a sparare, si rovescia di nuovo sul ventre, punta il mitra al campanile e attende, al riparo dei colpi – scrive nel libro “Senza tregua”, pubblicato da Feltrinelli nel 1967 -. Di Nanni afferra le sbarre della ringhiera e con uno sforzo disperato si leva in piedi aspettando la raffica. Gli spari invece cessano sul tetto, nella strada, dalle finestre delle case, si vedono apparire uno alla volta fascisti e tedeschi. Guardano il gappista che li aveva decimati e messi in fuga. Incerti e sconcertati, guardano il ragazzo coperto di sangue che li ha battuti. E non sparano. È in quell’attimo che Di Nanni si appoggia in avanti, premendo il ventre alla ringhiera e saluta col pugno alzato. Poi si getta di schianto».
Una scena degna di Rambo. Ma ora un articolo dello storico Nicola Adduci pubblicato sulla rivista «Studi storici» dell’Istituto Gramsci, quindi un ente di ricerca non imputabile di devianze revisioniste, la descrive come del tutto inventata. Circondato dai soldati tedeschi e dai militi della Gnr dopo aver compiuto un sabotaggio contro una stazione radio alle Basse di Stura, Di Nanni si difese con le unghie e coi denti, ma il finale è assai meno eroico di quanto tramanda la vulgata storica. Nel tentativo di sfuggire all’assedio si nascose nella canna della pattumiera e lì venne individuato dai fascisti, che lo abbatterono con una sventagliata di mitra.
Il lavoro di Adduci è frutto di una decennale ricerca storica che si basa sia sul racconto di testimoni oculari del fatto, sia sulla relazione del medico che eseguì l’autopsia. Nell’articolo si riporta anche la testimonianza di Giovanni Minetto, vigile del fuoco: «S’era buttato lì nella pattumiera e allora s’era tenuto, ma purtroppo si vede che gli sono mancate le forze e allora è sceso un po’ e […] c’erano i repubblichini sopra un balcone e han sentito quel fruscìo e […] come han detto i colleghi perché eran lì, dice che lui s’è messo a dire: “Non sparate, non sparate vengo fuori!” Qualcuno ha messo un mitra e ha sparato». Un resoconto che ci restituisce un Di Nanni molto più umano, un ragazzo di vent’anni che ha combattuto per i propri ideali ma alla fine, com’è naturale, cerca di salvare la pelle.
Però quella di Nicola Adduci è una ricostruzione che cozza con il mito dell’eroe della Resistenza. E infatti non tutti la prendono bene. L’ex sindaco comunista Diego Novelli, nato a cresciuto in borgo San Paolo, si dice amareggiato: «Cui prodest? Perché tirar fuori questi particolari che nulla tolgono alla fulgida figura di Dante? Non bisogna enfatizzare la Resistenza, ma neanche denigrarla. E poi è la prima volta che sento parlare di questa versione alternativa della sua morte».
Lo storico Gianni Oliva, Pd, ex assessore alla Cultura della Regione Piemonte, è invece molto più indulgente. «Non è una novità assoluta – osserva – si sapeva da anni che Di Nanni era stato ucciso con un colpo alla testa e non si era buttato dalla finestra. La descrizione fatta da Pesce nel suo libro fa parte dell’epica agiografica del periodo, che richiedeva la creazione di martiri della Resistenza. È un po’ la stessa cosa che è accaduta in Emilia con i fratelli Cervi: la loro immagine è stata costruita a tavolino dal giornalista dell’Unità Renato Nicolai su indicazione di Sandro Curzi, futuro direttore del Tg3, che all’epoca era un po’ il regista dell’opera di mitizzazione dei partigiani comunisti».
Oliva, autore del recente «L’Italia del silenzio. 8 settembre 1943» (Mondadori), aggiunge che si tratta di argomenti delicati, che tuttavia vanno gestiti con assoluta laicità: «La storia non deve avere confini, se così non fosse chi è titolato a mettere paletti alla ricerca?».
Una posizione non condivisa dal presidente dell’Istituto Storico della Resistenza, Claudio Dellavalle. Che infatti si toglie alcuni sassolini dalla scarpa proprio nei confronti di Oliva, peraltro membro del comitato scientifico dell’Istituto: «Non lo capisco, si avvicina a posizioni revisioniste e gliel’ho anche detto alla presentazione del suo libro. Nell’introduzione usa a piene mani affermazioni non provate in modo documentale, contenute nel libro “Il rosso e il nero” di Renzo De Felice. Forse spera di alimentare il dibattito e di vendere più libri…».
Quanto al saggio di Adduci e alla nuova versione della morte di Dante Di Nanni, Dellavalle ammette di esserne a conoscenza da molto tempo. «Dal punto di vista storico le cose sono andate così, è confermato – sottolinea -. E ciò non toglie nulla alla figura di Di Nanni, né incrina il suo mito. Adduci voleva pubblicare il suo articolo già parecchi anni fa, ma glielo sconsigliai perché all’epoca non era opportuno, non c’erano le condizioni politiche per farlo e si sarebbe rischiato di perdere di vista il quadro generale della lotta di liberazione. Ora è passato del tempo, si possono accettare anche le vicende contraddittorie della Resistenza e mettere in discussione verità che prima sembrano pacifiche».
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