Vojislav Pavlović pubblica per Rubettino una nuova biografia del Maresciallo. Analizzando complessità e contraddizioni del personaggio senza però citare le persecuzioni contro gli italiani
di Andrea Giuseppe Cerra da Il Piccolo del 15 novembre 2023
«Studiamo e prendiamo ad esempio il sistema Sovietico, ma stiamo sviluppando il socialismo nel nostro paese in forme in qualche modo differenti», sono le parole di Josip Broz, alias Tito, pronunciate nel 1948. Una dichiarazione che rappresentò la prima grande crisi transnazionale dell’area d’influenza di Mosca, definendo i tratti del conflitto tra il Partito Comunista dell’Unione Sovietica (Pcus) e il Partito Comunista Jugoslavo (Pcj), tale da rappresentare, per parte della storiografia, un vero e proprio scisma. La biografia del maresciallo Tito è certamente un punto centrale per comprendere la storia dei Balcani nel XX secolo, in quanto simbolo e leader indiscusso della Jugoslavia comunista. Ci si chiede tutt’ora chi sia stato realmente Tito: animoso combattente, spregiudicato politico, egocentrico statista, inaffidabile diplomatico. Genio e sregolatezza. Eppure, spesso vincente. Che lo abbia agevolato la sua grande propensione alla tattica di simulazione e dissimulazione?
Sono numerosi gli scritti dedicati alla sua figura, sino al più recente volume di Vojislav Pavlović, studioso formatosi nelle università di Belgrado e Parigi, “Tito. L’artefice della Jugoslavia comunista”, edito da Rubbettino (pp. 118, € 14.00), nella collana «dritto/rovescio» diretta da Eugenio Di Rienzo. «Umile suddito di Sua Maestà Imperiale e Reale Francesco Giuseppe d’Asburgo. Nacque nel villaggio croato di Kumrovec, a sessanta chilometri a nord-ovest di Zagabria, settimo figlio di Franjo Broz, contadino e conducente di carri, e di Marija Javorsek, casalinga», Pavlović sottolinea l’estrazione proletaria del futuro leader, che peregrinerà per buona parte dell’allora Duplice Monarchia con l’obiettivo di completare gli studi (nel 1911 anche a Trieste). Nell’analizzare la figura di Tito, sostiene Pavlović, il nodo da sciogliere non è insito nel raccogliere fonti o testimoni per ricostruire il corso della sua vita e della sua carriera, bensì nell’individuare la fisionomia politica e umana frammentata di un personaggio complesso attraverso gli innumerevoli interventi pubblici e i carteggi diplomatici.
Le fonti, però, spesso si contraddicono tra loro, asserisce lo studio, generando una proposta interpretativa artefatta su Josip Broz. Tito stesso, infatti, non mancò di costruire una sua personale e rielaborata narrazione del suo passato: ad esempio ci sono diverse versioni del suo arrivo alla guida della Savez komunista Jugoslavije (Lega dei Comunisti di Jugoslavia) negli anni Trenta e nelle sue varie dichiarazioni ha persino ricordato date di nascita diverse. Dopo qualche tempo, divenne chiaro, scrive Pavlovié, che la vita e le azioni di Tito non appartenevano più a Josip Broz. La loro importanza andava ben oltre lui, perché quella vita e quell’azione dovevano essere funzionali all’edificazione del credo jugoslavista. Del resto, la vita di Tito è stata il principale sostegno dell’ideologia jugoslava nella sua versione comunista e serbo-centrica, proponendosi sia come ideale da raggiungere sia come il modello da seguire.
Ed anche la biografia del Maresciallo di Pavlović appare in parte “generosa” nei giudizi espressi, celando questioni nevralgiche. Sembra, infatti, insufficiente l’interpretazione di uno «statista (che) assicurò ai cittadini jugoslavi trentacinque anni di dittatura comunista moderata durante i quali una parte considerevole di loro ha vissuto meglio rispetto al periodo precedente alla sua ascesa al potere»; e nelle parole dello studioso pare che prevalga la proposta giustificazionista, del considerare quell’esperienza dittatoriale come il male minore. Inoltre, si registra il mancato riferimento all’argomento “foibe”, né tantomeno ai fatti di Trieste e al ruolo rivestito dal Maresciallo. Va ricordata, ad esempio, la dichiarazione resa da Milovan Djilas, uno dei principali collaboratori di Tito, nel 1991 al settimanale “Panorama”: «Ricordo che io e Kardelij andammo in Istria a organizzare la propaganda antitaliana. Si trattava di dimostrare alle autorità alleate che quelle terre erano jugoslave e non italiane. Certo che non era vero. Ma bisognava indurre gli italiani ad andare via, con pressioni di ogni tipo. Così fu fatto». Sulle persecuzioni titine non sarebbero mancate fonti e riferimenti storiografici, a partire dagli studi condotti da Raoul Pupo, Roberto Spazzali, Jože Pirjevec (quest’ultimo citato su altre vicende), sino al vademecum stilato dall’Istituto regionale per la storia della Resistenza e dell’Età contemporanea nel Friuli-Venezia Giulia.
Invece, privilegiando altri momenti, quali la stagione del movimento dei non allineati, Pavlović ci ricorda che, pur volendo dimostrare che il comunismo jugoslavo era diverso da quello di Mosca (anche se per finanziarlo era stato necessario utilizzare i fondi degli imperialisti occidentali), Tito fece riemergere il volto del despota quando le riforme economiche e politiche degli anni Sessanta non raggiunsero i risultati promessi. Il vecchio Maresciallo impose con il pugno di ferro il suo potere basandosi sul partito comunista che di nuovo divenne onnipotente. Alla maschera del riformismo seguì il volto di un regime che non aveva abiurato al modello sovietico.