Esattamente 208 anni fa, il 19 gennaio del 1807 (dunque poco prima della battaglia napoleonica di Eylau, che è dell’8 febbraio di quello stesso anno), nasceva a Stratford Hall, in Virginia, Robert Edward Lee, l’uomo destinato a diventare l’autentico “padre della Patria” della Confederazione sudista, il comandante militare la cui memoria è ancora oggi straordinariamente viva in tutto il Sud degli Stati Uniti.
di Piero Visani da Destra.it del 17 gennaio 2015
Figlio di una delle più eminenti famiglie della Virginia, non ebbe un’infanzia facile a causa dei rovesci finanziari del padre e della sua prematura scomparsa, Grazie alle relazioni familiari, tuttavia, nel 1824 egli venne ammesso all’Accademia militare di West Point, dove, a causa del gran numero di ammessi di quell’anno, poté iniziare i corsi solo l’anno successivo. Nel giugno del 1829 ottenne la nomina a sottotenente nel corpo del Genio, classificandosi al secondo posto nella graduatoria dei licenziati del suo corso.
Nel giugno del 1831, quando era già un giovane ufficiale di carriera, si sposò con Mary Custis, che conosceva fin dai tempi dell’infanzia. Da questa unione, non propriamente felice, nacquero sette figli, tre maschi e quattro femmine.
Lee compì le sue prime esperienze belliche durante la guerra con il Messico del 1846-48, cui egli partecipò come membro dello Stato Maggiore del generale Winfield Scott. Nel corso della brillante avanzata statunitense da Veracruz verso Città del Messico, egli si distinse per il suo colpo d’occhio nel valutare il terreno e le situazioni tattiche. Durante quel conflitto, inoltre, egli ebbe modo di conoscere e apprezzare le qualità di colui che sarebbe diventato, nella Guerra Civile, il suo formidabile avversario, Ulysses Simpson Grant.
Nel 1852, Lee venne nominato sovrintendente dell’Accademia di West Point, incarico che non lo entusiasmò, ma che svolse con la consueta dedizione. Tuttavia, fu un gran sollievo per lui ottenere, nel 1855, la nomina a vicecomandante di un reggimento di cavalleria, in quanto una scelta del genere significava passare a un servizio attivo, che era quanto desiderava. Destinato in Texas, si trovò impegnato in varie scaramucce contro gli Apache e i Comanche.
Nel 1857, la morte del suocero, Parke Custis, lo fece assurgere al ruolo di esecutore testamentario del medesimo e in particolare della disposizione per cui avrebbe dovuto emancipare i suoi schiavi entro un periodo di cinque anni. Per assolvere a tale gravoso incarico, Lee dovette prendere un’aspettativa di due anni dall’Esercito, ma alla fine diede pieno corso ai voleri del suocero.
In quanto figlio di uno Stato come la Virginia, situata nella parte più settentrionale del Sud, Lee aveva una concezione dello schiavismo che era più blanda di quella di molti suoi contemporanei sudisti, in quanto la progressiva industrializzazione della Virginia stava portando alla costante diminuzione delle piantagioni e, con esse, alla sparizione delle più deplorevoli forme di schiavismo, che ancora permanevano negli Stati più meridionali e maggiormente legati al commercio del cotone.
Quando un acceso abolizionista come John Brown, insieme a una ventina di sodali, assunse il controllo dell’arsenale federale di Harper’s Ferry, nell’ottobre del 1859, nella speranza di accendere nel Sud una rivolta degli schiavi, Lee venne incaricato dal presidente James Buchanan di reprimere il tentativo sedizioso, compito che egli assolse rapidamente.
Nel 1861, nelle fasi iniziali della Guerra Civile, dopo la secessione del Texas (dove Lee era in servizio) dall’Unione (febbraio 1861), egli ritornò a Washington, dove il nuovo presidente – Abramo Lincoln – lo nominò comandante del 1° Reggimento di Cavalleria. Tre settimane dopo, gli venne offerto – dal consigliere presidenziale Francis P. Blair – il grado di generale nell’Esercito dell’Unione, che si stava ampliando rapidamente in previsione di un conflitto, ma egli rifiutò. Lee non era infatti favorevole alla secessione, ma non aveva alcuna intenzione di prendere le armi contro il suo Stato d’origine, la Virginia. Questa decisione – rimasta sempre oggetto di perplessità – chiarisce invece molto bene uno degli aspetti fondamentali (e sempre sottovalutati) della Guerra Civile: la questione dei diritti degli Stati. In effetti, se l’Unione era stata concepita, fin dai tempi della Rivoluzione americana, come uno stato federale, dunque frutto di un patto (foedus) tra Stati diversi, pretendere la dissoluzione di quel patto non aveva nulla di illegittimo, se alcuni Stati ritenevano che ne fossero venute meno le ragioni. E quegli Stati erano quelli del Sud, che dal permanere nell’Unione vedevano gravemente violati i loro diritti e i loro interessi politici ed economici.
Lee rassegnò le sue dimissioni dall’U.S. Army il 20 aprile 1861 e tre giorni dopo assunse il comando delle forze dello Stato della Virginia. Gli inizi della sua attività militare come generale confederato non furono particolarmente brillanti e suscitarono non poche critiche nella stampa sudista, Tuttavia, egli venne comunque nominato consigliere militare del Presidente degli Stati confederati, Jefferson Davis.
Fu solo all’inizio di giugno del 1862, quando il conflitto tra Nord e Sud era in atto da quasi un anno, che Lee, a seguito del ferimento in battaglia del generale Joseph Eggleston Johnson, ottenne il comando dell’Armata della Virginia settentrionale, la più poderosa tra le forze sudiste. La sua nomina non venne ben accolta dalla stampa confederata, che lo riteneva un generale troppo cauto e incapace. Tuttavia, nella celebre “Battaglia dei Sette Giorni”, combattuta nelle vicinanze di Richmond (Virginia) nelle settimane immediatamente successive alla sua nomina, egli ebbe subito modo di mettere in mostra eccellenti doti di comandante, audace, amante del rischio, sempre pronto a cogliere qualsiasi opportunità per passare all’offensiva.
Nelle settimane successive, Lee ottenne una grande vittoria nella seconda battaglia di Manassas, riprese l’iniziativa strategica, arrivò a minacciare Washington e decise di passare all’offensiva verso Nord, invadendo il Maryland, uno Stato le cui simpatie erano divise tra Unione e Confederazione. La mossa si rivelò però troppo audace e l’avanzata di Lee venne bloccata nella battaglia di Antietam (settembre 1862), la più sanguinosa dell’intero conflitto.
I mesi successivi videro Lee vittorioso nella battaglia di Fredericksburg (dicembre 1862) e trionfatore in quella di Chancellorsville (maggio 1863), frutto di una manovra di aggiramento capolavoro, destinata a rimanere negli annali della storia militare.
Sull’onda del successo e per cercare di porre in qualche modo rimedio alla strategia unionista, che stava cercando di stroncare il Sud con una guerra di logoramento intesa a minarne le capacità economiche, nell’estate del 1863 Lee decise di invadere nuovamente il Nord, nella speranza che ciò potesse convincere le potenze europee a riconoscere diplomaticamente la Confederazione e a intervenire per imporre la cessazione delle ostilità. Le forze confederate entrarono in Maryland e in Pennsylvania, che era uno Stato risolutamente unionista, ma vennero bloccate a Gettysburg (1-3 luglio 1863).
Fu in questa epocale battaglia che Lee dimostrò tutti i suoi limiti: figlio del proprio tempo, non aveva compreso che i grandi attacchi frontali di fanteria in ordine chiuso, retaggio dell’arte della guerra del periodo napoleonico, non erano più possibili in un conflitto dominato dalle armi rigate, capaci di sviluppare una potenza di fuoco assolutamente sconosciuta ai tempi delle armi ad avancarica e ad anima liscia. Tale incapacità di comprendere lo condusse a riportare una grave sconfitta, che costò al Sud perdite dalle quali non si sarebbe più ripreso.
Com’è noto, Gettysburg rappresentò il punto di svolta della Guerra Civile, dopo il quale il predominio unionista si fece sempre più marcato. Lee fu ancora in grado di combattere con successo significativi scontri difensivi, ma non riuscì mai più a riprendere l’iniziativa strategica, fino alla disfatta finale di Appomattox (aprile 1865).
L’aspetto di maggiore interesse riguardante Lee è probabilmente la sua progressiva trasformazione in icona sudista. Già avviata nel corso del conflitto grazie alla assoluta fiducia che i soldati confederati riponevano in lui (fiducia che sconfinava nella venerazione), essa si accentuò dopo la disfatta, quando egli divenne di fatto il “padre della Patria” di una Patria che, in verità, non esisteva più. La sua figura ieratica, la sua natura carismatica, la sua inclinazione a combattere una “guerra senza odio” e a favorire, a partire dal 1865, una politica di riconciliazione tra Nord e Sud, mettendo da parte gli odi classicamente connessi a un conflitto intestino, ne hanno esaltato le qualità anche al di là di quelle – non certo indifferenti – che gli furono proprie.
Oggi Lee e il Sud di fatto si identificano ed egli ha avuto un ruolo formidabile nel mantenimento della memoria storica sudista, che – com’è noto – resta estremamente forte. Al tempo stesso, questo ruolo iconico ha parzialmente oscurato i tentativi di articolare meglio ciò che il Sud avrebbe potuto fare – e non fece – durante la Guerra Civile, dal rinunciare a combattere un conflitto di tipo tradizionale per scegliere invece una guerra di guerriglia (e questo soprattutto a partire dal 1865) a continuare a rivendicare le ragioni dei diritti degli Stati, la vera chiave politica del conflitto, molto al di là della questione dell’abolizione della schiavitù, che fu, è e resta un tema essenziale della propaganda unionista, per evidenti motivi, ma è solo una parte del tutto. Non a caso, la sua figura è certamente intoccabile, ma rimane strumentale a un’intepretazione del Sud che fa comodo all’Unione, non certo al Sud stesso, in quanto trasforma in una sorta di parentesi, di “accidente della Storia”, un conflitto che fu invece una straordinaria battaglia di libertà contro le prevaricazioni e le forzature costituzionali del potere centrale.