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Il Canto degli Italiani, breve storia dell’inno che infiammò i patrioti

La sera del 10 dicembre 1847, sul piazzale del santuario di Nostra Signora di Loreto a Genova fu presentato al popolo una nuova canzonetta. L’occasione era la commemorazione del centenario della rivolta di Portoria contro gli asburgici durante la Guerra di successione austriaca (1740-1748).

Autori di questa canzonetta, una giovane testa calda genovese – il poeta diciannovenne Goffredo Mameli – e un tenore con l’hobby della composizione, Michele Novaro, che aveva 10 anni più dell’amico. All’epoca l’Italia era ancora la terra della musica e del bel canto. Non c’erano i Maneschin né la trap e San Remo era solo un pacifico comune della Riviera di Ponente. Le canzonette risuonavano in ogni via, in ogni bottega, e in chiesa il popolo cantava (in latino, per giunta). La musica pop d’allora era l’opera lirica e i mass media del tempo erano gli ambulanti con gli organetti e i foglietti volanti coi testi e – a volte – qualche pentagramma con il tema musicale. Per il resto, il popolo ne sapeva abbastanza da arrangiare parole e musica con gli strumenti che aveva: il mandolino, la chitarra, degli ottoni. Qualcuno aveva perfino un pianoforte o una spinetta, che chiaramente però non potevano seguire il proprietario in strada o nelle taverne o nei circoli culturali. Fossero stornelli o canzoni d’amore, fossero romanze o canti politici, le note all’epoca non erano proprietà dei discografici e davvero smuovevano le coscienze.

E la nuova canzonetta, nell’occasione suonata dalla Filarmonica Sestrese – banda municipale di Sestri Ponente – era una di quelle che di coscienze ne avrebbe smosse a milioni. Del resto, in quell’occasione s’erano riuniti fra i carrugi genovesi ben 30.000 patrioti provenienti da tutta Italia per celebrare le sassate del giovane Balilla alla soldataglia austriaca nel 1747. Gente a cui prudeva le mani da molto tempo.

E fra le mani di costoro arrivarono i primi fogli volanti del testo di Mameli stampati da varie tipografie genovesi, distribuiti dagli organizzatori della manifestazione a coloro che presero parte al corteo nel quartiere di Oregina. L’inno composto da Mameli e Novaro fu il successo della giornata. Una settimana dopo, le cronache davano conto del riscontro fra il pubblico del nuovo canto: il 18 dicembre 1847 il giornale “L’Italia” di Pisa pubblicava una notizia dal corrispondente da Torino due giorni dopo:

«Da molte sere numerosa gioventù si raduna nel locale dell’accademia filodrammatica a cantare un inno all’Italia del cav. Mamelli, posto in musica dal maestro Novaro; la poesia […] è piena di fuoco; la musica vi corrisponde pienamente […].»

Il “Canto degli Italiani” di Mameli col suo ritmo travolgente era in linea coi canti della Rivoluzione francese, tanto diversi dagli ieratici inni dinastici del Settecento. Mameli era un rivoluzionario, ammiratore dei giacobini e infiammato di sacro furore. Durante la prima stesura del testo, tale era la foga che Goffredo infarcì di errori d’ortografia la poesia che stava scrivendo. Novaro, dal canto suo, fu rapito dalle parole di Mameli e faticò non poco a trovare la melodia e il ritmo giusto per loro. Così il patriota e scrittore Anton Giulio Barrili rievocò, nel 1902, le parole che personalmente Novaro gli disse nell’aprile 1875 sulla nascita della musica di “Fratelli d’Italia”:

«[…] Mi posi al cembalo, coi versi di Goffredo sul leggio, e strimpellavo, assassinavo colle dita convulse quel povero strumento, sempre cogli occhi all’inno, mettendo giù frasi melodiche, l’una sull’altra, ma lungi le mille miglia dall’idea che potessero adattarsi a quelle parole. Mi alzai, scontento di me; mi trattenni ancora un po’ di tempo in casa Valerio, ma sempre con quei versi davanti agli occhi della mente. Vidi che non c’era rimedio; presi congedo, e corsi a casa. Là, senza pure levarmi il cappello, mi buttai al pianoforte. Mi tornò alla memoria il motivo strimpellato in casa Valerio: lo scrissi su d’un foglio di carta, il primo che mi venne alle mani: nella mia agitazione rovesciai la lucerna sul cembalo, e per conseguenza anche sul povero foglio: fu questo l’originale dell’inno “Fratelli d’Italia”. […]»

Il testo di Mameli fu scritto fra l’8 e il 10 settembre precedente. Nei mesi successivi l’autore vi rimise le mani sopra più volte, modificandolo. L’incipit, che era originariamente un “Evviva l’Italia” fu cambiato in “Fratelli d’Italia”, e tale rimase. Il famoso “sì!” finale che tutti gridano a conclusione delle parole del ritornello “l’Italia chiamò” non è un apocrifo popolare, come molti pensano, ma una aggiunta dello stesso Novaro, nell’entusiasmo della composizione.

La poesia era originariamente di sei strofe, la sesta delle quali dedicata alle donne d’Italia, che però poi venne cassata dallo stesso Mameli. Recitava: «Tessete o donzelle / bandiere e coccarde / fa l’alme gagliarde / l’invito d’amor».

Il brano era già stato provato e riprovato prima di quel 10 dicembre di 176 anni fa. Tutti coloro che lo avevano ascoltato in anteprima ne erano entusiasmati. Il giornalista Giuseppe Massari, il 4 dicembre precedente aveva fatto scrivere sul suo giornale “Il mondo illustrato”:

«La poesia però che per lo splendore delle immagini, per la novità originale davvero del concetto, pel vigore del sentimento e per la naturale e spontanea armonia del ritmo vince al paragone tutte le altre e sopravviverà alle ingiurie del tempo ed alla dimenticanza dei secoli è l’inno nazionale dettato dal giovane Mameli genovese, che verrà reso di publica ragione in questi giorni. È vero inno nazionale, è inno italiano, sarà il nostro Peana. […] I versi del Mameli trovarono degno interprete nell’egregio genovese, maestro Novaro, il quale seppe vestirli di melodiosa e magica veste musicale. Noi ascoltammo alcune sere or sono il canto dell’inno del Mameli colla musica del Novaro e ne fummo profondamente commossi. […]»

Erat in votis dunque che “Il Canto degli Italiani” di Mameli e Novaro sarebbe dovuto ascendere a inno nazionale ufficiale del nostro paese. In realtà esso tanto successo ebbe fra il popolo quanti dubbi e mal di pancia suscitò nelle classi dirigenti. Ovviamente fra i nemici, gli austriaci e i loro amici austriacanti, tanto che oltralpe era reato politico cantarlo sino alla fine della Prima guerra mondiale e in tutti gli Stati pre-unitari causava guai con gli sbirri. Ma anche i conservatori italiani non vedevano di buon occhio quella canzonetta rivoluzionaria: il suo autore era notoriamente mazziniano e il brano venne proibito anche dalla polizia sabauda fino al marzo 1848, quando il governo di Torino cambiò posizione politica assumendo la guida del patriottismo nazionale. In ogni caso, il carattere ultra-dinastico del Risorgimento a guida sabauda non poteva tollerare altro inno ufficiale per lo Stato che la Marcia Reale (cosa che durante il Ventennio provocò non pochi dissapori col Fascismo, che invece voleva affiancare “Giovinezza” a “Viva il Re” di Giuseppe Gabetti). L’Inno di Mameli dunque per quanto non più vietato, venne relegato a canto fra i tanti. Ma non furono solo gli ambienti ufficiali a ostacolarne l’ascesa.

Critiche al “Canto degli Italiani” arrivarono pure da Giuseppe Mazzini, mentore di Mameli. Secondo il rivoluzionario, la musica composta da Novaro era… troppo poco marziale. Mazzini contestava poi anche il testo, e l’anno successivo commissionò un nuovo componimento a Mameli, dando l’incarico a Giuseppe Verdi di musicarlo. Nacque così “Suona la tromba”, che avrebbe comunque avuto un discreto successo per i tuoi accesi toni anti-austriaci, tanto da avere molte versioni fino a quelle dei volontari della RSI fra 1943-45: «Suona la tromba — ondeggiano / le insegne gialle e nere. / Fuoco, per Dio, sui barbari, / sulle vendute schiere! / Già ferve la battaglia: / al Dio dei forti, osanna! / Le baionette in canna: / è l’ora del pugnar». In ogni caso, Mazzini era un eterno scontento, e a quanto pare anche questo brano non lo soddisfece.

E’ interessante che se Mazzini contestava a Mameli e Novaro d’aver scritto un pezzo troppo poco marziale, oggi gli avversari del “Canto degli Italiani” accusano il nostro inno d’essere “una marcetta” e di avere troppi cenni militaristi (“stringiamci a coorte”) e maschilisti (“dov’è la Vittoria, le porga la chioma”). Peraltro il delirio femminista ovviamente s’appunta su quel “Fratelli d’Italia” (“e allora, le sorelle?”) mentre per qualche pazzoide il verso “i figli d’Italia si chiaman Balilla” sarebbe ovviamente… fascista, con 80 anni d’anticipo. Alla faccia dell’ante-marcia…! L’ultimo insulto Mameli e Novaro l’hanno avuto con l’oscena riscrittura renziana per l’Expo 2015, con quel “siam pronti alla vita” che storpiava la drammatica tensione della poesia risorgimentale trasformandola in una sigla da cartone animato degna di “Bim bum bam“.

Comunque, nonostante la concorrenza di altri brani – fra cui capolavori come “La canzone del Piave”, che fu inno non ufficiale d’Italia nei tristi anni della guerra civile e dell’occupazione dopo la Seconda guerra mondiale – e nonostante le critiche degli attivisti degni di miglior causa, alla fine, dopo 175 anni l’Inno nazionale italiano, “Fratelli d’Italia”, com’è popolarmente chiamato, gode di discreta salute. E anche se la maggior parte del nostro popolo ne conosce solo alcuni versi cantati all’inizio delle partite dei Mondiali di calcio, anche se nelle scuole pubbliche le maestre progressiste tutte “agenda 2030” fanno sorrisini di sufficienza con “ma oggi l’inno non l’insegna più nessuno”, il suo ritmo travolgente e le sue parole commoventi scaldano ancora i cuori degli italiani. Magari pochi. Ma sicuramente buoni.

Questo articolo è stato pubblicato originariamente su CulturaIdentità del 10 dicembre 2023

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