La riedizione del saggio del controverso pensatore francese consente di riflettere su come l’uso della forza intervenga in politica
di Giuseppe Bedeschi da Il Giornale del 17 luglio 2024
Molto opportunamente l’editore Castelvecchi ha ristampato un classico del pensiero politico: Riflessioni sulla violenza di Georges Sorel (pagg. 344, euro 30). Pubblicato in Francia nel 1908 e tradotto l’anno seguente da Laterza (su consiglio di Benedetto Croce), questo libro ha avuto una importanza enorme per la storia politica italiana. Esso fu infatti il manifesto del sindacalismo rivoluzionario, e ad esso si ispirarono le correnti rivoluzionarie del partito socialista italiano, capeggiate da Arturo Labriola. Questi, nel dicembre 1902, si era trasferito da Napoli a Milano e qui aveva fondato il settimanale Avanguardia socialista, in cui si rifaceva alle idee esposte da Sorel.
I sindacalisti rivoluzionari condannavano il parlamentarismo e bollavano «qualunque attività riformatrice in regime borghese» come «sempre imperfetta», di fronte al «meccanismo fondamentale della produzione capitalistica»; affermavano la «inconciliabilità tra il proletariato e la monarchia»; riservavano ai socialisti «l’uso della violenza per i casi in cui essa fosse necessaria». Labriola considerava il marxismo dei riformisti (Turati e i suoi seguaci) come una profonda adulterazione del marxismo rivoluzionario. Per Marx, diceva Labriola, la classe operaia nel corso della propria evoluzione tendeva all’abbattimento del capitalismo e al tempo stesso dello Stato. Ma i politicanti del socialismo non vedevano di buon occhio questa posizione, e la qualificavano anzi «anarchica». Per essi la rivoluzione sociale consisteva nel fatto che gli operai eleggevano una maggioranza di socialisti alle cariche pubbliche, i quali poi facevano «il bene» degli operai. Prima di raggiungere questo obiettivo, gli operai non avevano da far nulla di meglio che metterli sotto la loro tutela.
In Italia i socialisti benpensanti diventavano idrofobi al solo pensiero dell’abolizione dello Stato. Statalismo e parlamentarismo costituivano il giocondo binomio del socialismo riformista italiano. La classe operaia, invece, secondo Labriola, non poteva emanciparsi se non riusciva, nel contempo, ad impadronirsi della produzione e ad assorbire il potere politico. Sorel aveva studiato molto bene, diceva Labriola, nel «mirabile» scritto sull’avvenire socialista dei sindacati operai, il modo in cui questo fine poteva essere realizzato.
Non può meravigliare che le teorie di Sorel e le posizioni del sindacalismo rivoluzionario esercitassero un profondo influsso sul Mussolini socialista (il quale lesse per la prima volta Les réflections sur la violence a Losanna). Ma, come ha osservato Renzo De Felice, sindacalista rivoluzionario nel senso stretto del termine Mussolini non fu mai. E tuttavia, nella dottrina e nella pratica del sindacalismo rivoluzionario Mussolini trovò alcuni motivi destinati a divenire dei capisaldi della sua concezione politica. Per lui il sindacalismo rivoluzionario non era solo la più vigorosa forma di reazione contro il riformismo, ma era la dottrina che, con la teoria dell’azione diretta e dello sciopero generale, conferiva un vigore nuovo alla concezione rivoluzionaria del socialismo. Ma è significativo che la grande considerazione per Sorel non sia venuta meno nemmeno nel Mussolini fascista. Infatti nella voce Fascismo scritta per l’Enciclopedia italiana, egli scrisse: «Nel grande fiume del fascismo troverete i filoni che si dipartirono dal Sorel, dal Péguy, dal Lagardelle (…), e dalla coorte dei sindacalisti italiani, che tra il 1904 e il 1914 portarono una nota di novità nell’ambiente socialistico italiano, già svirilizzato e cloroformizzato dalla fornicazione giolittiana»…
Nella Introduzione a questa edizione delle Réflexions di Castelvecchi, Fabio Martini ricorda che nel 1932, a dieci anni dalla morte di Sorel, l’ambasciatore italiano a Parigi offrì (su suggerimento di Mussolini) la disponibilità del governo italiano a realizzare un monumento funebre in suo onore. Negli stessi giorni l’ambasciatore sovietico fece un’offerta analoga. La cosa non deve stupire. Infatti, se Sorel aveva definito Mussolini «un genio politico, la cui portata è superiore a quella di tutti gli uomini politici di oggi», di Lenin aveva detto che era «il più grande teorico del socialismo dai tempi di Marx». Antonio Gramsci, a sua volta, espresse tutta la sua stima e la sua ammirazione per l’ideologo francese. Certo, egli precisò che lui e i suoi compagni erano «ben lontani dall’accettare tutto» dell’opera soreliana.
Ma, fatta questa riserva, lo scrittore sardo non esitava a riconoscere che Sorel «era temperamento troppo finemente critico per adattarsi a schematizzazioni arbitrarie e affrettate», e che egli aveva «una immediata e limpida intuizione dei bisogni della vita operaia, e della sua fresca originalità».
Che cosa concludere da questo quadro? Che Sorel è stato certamente un classico del pensiero politico, ma che si iscrive nella grande corrente della critica e del rifiuto della società liberal-democratica.