Dopo le notti di temporali, in questa piana di viti e ulivi la terra rigurgitava ossa come se li fiorisse dal suo ventre. Ossa di vinti e vincitori, consoli e traditori. Fosse comuni e fosse nobili, perché il più grande generale tributava il massimo degli onori ai nemici di cui aveva rispetto: una degna sepoltura.
di Emanuela Fontana dal del 25/05/2017
Mimì Lomuscio perlustra la piana con gli occhi di chi la conosce in ogni angolo, pietre, filari di viti, grotte carsiche, acque freatiche, settant’anni nel locus dove si svolse la più grande battaglia della storia, studiata dagli americani prima della Guerra del Golfo del 91, la manovra di accerchiamento più riuscita di sempre, condotta nel modo più magistrale: la battaglia di Canne, voluta, diretta e vinta da Annibale Barca, l’uomo che distrusse i romani con la forza dell’intelligenza.
Canne della Battaglia non è un paese: è una coppia di binari, una piccola stazione dove vandali non identificati hanno rubato anche i medaglioni in terracotta del cartaginese e di Scipione, distese di ulivi che producono un vino sublime, chiamato per cause di forza maggiore, «Annibale», una masseria abbandonata, una cittadella medievale recintata, chiusa, un sepolcreto anch’esso inagibile e un museo, ugualmente sbarrato per lavori. Qui entro giugno partirà una attesa ricostruzione in 3 D della battaglia delle battaglie, spettatori soldati sul fiume Ofanto all’alba del 2 agosto del 216 avanti Cristo, un progetto finanziato dall’Unione Europea con un milione e quattrocentomila euro.
Ma intorno al cinema, Canne è un deserto, uno di quei punti d’Italia di silenzio completo, assenza. C’era una fontanella ma è scomparsa, alla stazione le panche in marmo di Trani sono state sradicate e portate via, da Barletta arriva un solo treno al giorno, ed è scoordinato con le coincidenze con le grandi città, Roma per esempio. I pullman sono due ma lasciano lungo una statale molto distante dagli scavi. I custodi del campo sono i figli di Annibale, trenta iscritti all’associazione pro Canne, formata da professori, contadini, fabbri, con qualche elemento non indigeno, come un americano esperto di psico-storia, il professor Yozan Mosig dell’Università del Nebraska, titolare della più formidabile libreria al mondo su Annibale, 8mila volumi.
Ma il socio più prestigioso è Mimì, Domenico Lomuscio, 83 anni, ex capostazione di Canne e bersagliere, ultimo testimone oculare della sensazionale individuazione del cuore della battaglia e del suo genius loci, lo spirito del vincitore: il budello di terra stretto tra il poggio della Boccuta e il fiume Ofanto dove Annibale sterminò 48mila duecento romani in un rapporto di uno a quattro: «Un teschio di cartaginese per quattro romani mi diceva Gervasio, l’archeologo». Canne è tutta battaglia, storia, una piana che parla con i nomi delle Contrade, Pezza di sangue, Paolo Stimolo, volgarizzazione di Paulus tumuli, tomba di Emilio Paolo, il console valoroso che rimase al fianco dei suoi uomini fino all’ultimo respiro.
In Mimì, che non ha studiato il greco antico né il latino, rivivono le cronache di Polibio e Tito Livio su Hannibal superior virtute et fortuna. Fu il padre, Francesco Lomuscio, l’uomo che cambiò la storia di Canne e la vita dell’archeologo Michele Gervasio. Prima di conoscere il capostazione, lo studioso di guerre puniche spendeva le sue giornate a cercare spicchi d’ossa soggiornando in isolamento in una masseria. Lomuscio padre disse: «Cumpa’, ma che cosa andate cercando, ossa? Quando faccio la semina nel mio campo ne vedo tante». Ma tante davvero, romane e medievali.
Con porzioni di colonne e resti umani, elmi gallici e frammenti di armature, riprese vita Canne, e la stazioncina dei Lomuscio divenne la prima in Italia a collegare un sito archeologico, anche se durante l’occupazione del ’45 gli inglesi portarono via ceramiche e altri manufatti, ci racconta Nino Vinella, presidente dell’associazione pro Canne e direttore della Gazzetta dell’archeologia online, compagno di scuola di Mennea. Gli inglesi tentarono pure di sradicare il menhir, il megalite magico nascosto tra gli ulivi, «ma il cavo si spezzò», puntualizza Mimì.
In questo fertilissimo lembo dell’antica Apulia che canta battaglie e venti traditori, come il favonio che accecò i romani, a contratto ci sono ora solo «due custodi museali», raccontano all’associazione. Nel 2015 altri vandali hanno devastato la stazioncina portando via il computer. Eppure si resiste. L’associazione fa promozione e si occupa di tenere in ordine i locali sui binari.
Nel 2007 Mimì lasciò il comodato d’uso al gruppo dei resistenti. Lui vive ad Andria, ma spesso si sposta a Castel del Monte. «E lì vedo bed and breakfast, ristoranti a ogni angolo. E mi chiedo perché Canne non la si fa vivere così». Il castello svevo è gonfio di turisti: 260mila presenze lo scorso anno. A Canne undicimila e non si paga biglietto. I cannesi, i veri discendenti di questa terra, occupano un quartiere di Barletta, Borgo San Giacomo. Ecco perché chi vuole trovare i figli di Annibale deve andare là. A parte Mimì e Nino, che risalgono volentieri la strada degli ulivi che conduce alla collina di Mercurio. Nelle loro parole sembra di rivedere la straordinaria tattica militare con cui Annibale ingabbiò l’esercito romano: un arco con la punta rivolta verso la fanteria avversaria, guidata dai Galli, irruenti e spaventosi; le ali di cavalleria ferme, immobili, fino all’ordine del generale Annibale: la punta batta la ritirata e le ali, fresche, si impennino in avanti. Così l’arco diventò da concavo a convesso, come un elastico, e la cavalleria chiuse a tenaglia i romani ingabbiandoli nel vallone. Molti trovarono la morte nelle acque dell’Ofanto.
Qui vivono Annibale, Paolo Emilio, e Terenzio Varrone, il pavido. Vivono coraggio, viltà e astuzia, tutta la storia della Roma pre-imperiale, vivono le ragioni di una vendetta, ma anche una storia che risale ai canti omerici e ai figli, non di Annibale, ma di Enea. Mimetizzato tra gli ulivi, colonna, albero, pietra sacrale, ecco il menhir che faceva gola agli inglesi. «Si dice portato all’epoca di Troia da Diomede», ci racconta Nino. Secondo leggenda sarebbe addirittura un pezzo di mura della città di Priamo.