Presso il grande pubblico, del Medioevo si parla, più o meno a proposito, ormai da decenni. Ora Umberto Eco ci fornisce una trattazione sistematica su quel periodo, in tre volumi di cui due appena pubblicati (rispettivamente sull’alto Medioevo e sul periodo tra XI e XIII secolo), aggiungendo al titolo generico (Medioevo, appunto) dei sottotitoli trinitari, e abbastanza discutibili («Barbari Cristiani Musulmani», «Cattedrali Cavalieri Città», e per il terzo, imminente, sul Tre e Quattrocento, «Castelli Mercanti Poeti»).
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di Cesare Segre per il “Corriere della Sera” del 7 aprile 2010
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I due volumi pubblicati (presso EncycloMedia, € 42 per volume) sono di circa settecento pagine l’uno. Come prevedibile per un’opera promossa da Eco, si notano almeno due caratteristiche qualificanti: primo, l’ampiezza della visuale che comprende tutta la storia europea del periodo, andando oltre i confini quando opportuno (per l’Islam, tra l’altro; e c’è persino un capitolo, molto isolato, sulla Cina), e presta massima attenzione all’articolarsi della società civile o religiosa; secondo, un impianto che non mette al centro dell’analisi la storia politica o la letteratura o la filosofia ma lo sviluppo dei vari saperi, anche pratici, con particolare attenzione alle scienze e alle tecniche, nonché alle arti visive.
Insomma, la lezione degli storici francesi, specialmente di quelli formati sulle Annales, è ben utilizzata. Certo, muoversi in un quadro così vario tenendo anche conto, com’è inevitabile, dello sviluppo storico, non è tanto semplice; in complesso mi pare che l’abbozzo stia in piedi.
Va poi segnalato con particolari lodi il corredo illustrativo, con belle tricromie di opere non tutte di repertorio. Sulla periodizzazione non ci sono prese di posizione nette. Tipica l’introduzione di Eco (ideatore e organizzatore, che poi appare raramente come collaboratore), più attenta a criticare posizioni tradizionali che a motivarne il rinnovamento; eppure motivare le periodizzazioni, anche se contestabili, resta un’utile presa di posizione metodologica.
Se in Italia si fa terminare il Medioevo con il tracollo demografico della peste nera (1348) o con gl’inizi dell’Umanesimo, in sostanza con Petrarca (e per la nostra storia culturale va benissimo), nel resto dell’Europa si arriva sino alla caduta di Costantinopoli (1453) o alla scoperta dell’America (1492), e va altrettanto bene per quei Paesi (data la scelta europea, Eco non poteva discostarsi dal secondo modello). Ma poi ci mette in confusione quando cita l’ottava dell’Ariosto contro gli archibugi e la polvere da sparo (Furioso, XI, 26).
Scrive: «18 anni prima della fine “ufficiale” del Medioevo Ludovico Ariosto canterà» ecc. Dato che la terza redazione del Furioso, che presenta per la prima volta l’ottava, è del 1532, il Medioevo finirebbe nel 1550. Data esageratamente e inaccettabilmente avanzata né, mi pare, proposta nel resto del volume.
Ci dev’essere stato un corto circuito che ci sfugge. È consuetudine saggia domandarsi a quale pubblico si rivolga un prodotto. Nel volume s’intravvedono due diverse impostazioni. L’Introduzione guarda a un lettore piuttosto sprovveduto, quello che crederebbe ancora ai «secoli bui» o al Medioevo dominato da una «visione cupa della vita».
Naturalmente questo dà a Eco lo spunto per un godibile disegno del periodo, in cui sono valorizzate tutte le anticipazioni di un futuro che saprà rinnovare le arti e le scienze. Un disegno rafforzato dalla menzione di progressi tecnici e artistici che in parte preannunciano la rivoluzione rinascimentale.
I collaboratori, varie decine e di qualità ineguali, nelle loro brevi sintesi, che si succedono affannosamente, sembrano pensare invece a lettori di una certa cultura. Ma peccano forse di sopravvalutazione, se credono che sia chiara la definizione di tipologia come «corrispondenza fra tipo, solitamente nell’Antico Testamento, e antitipo, nel Nuovo» a chi non abbia letto l’articolo di Auerbach su «figura» ; oppure parlano di fueros, senza spiegare che cosa siano.
I capitoli su letteratura e teatro appaiono comunque come dei riassunti di storia letteraria (e si riconoscono spesso le fonti). Forse, dato che sono rivolti a non specialisti, avrebbero dovuto illustrare più ampiamente la creazione di nuovi generi, le tematiche, le innovazioni formali e contenutistiche, piuttosto che ambire a una completezza inventariale inutile per il non specialista, che non può intuire tutto ciò che sta dietro a qualunque informazione.
Guai poi se il riassunto non è preciso, come quando, per esempio, per il Roman de la Rose, si parla di «due versioni di Guillaume de Lorris e Jean de Meung», mentre i due poeti sono autori di due parti successive e non alternative del poema.
Che cosa sia poi questo Roman de la Rose, non si capisce bene. E meno si capiscono le proporzioni quantitative: i pur deliziosi lais di Maria di Francia occupano quattro pagine, la metà dell’epica, che vanta decine e decine di testi, rapporti con la storia e con la crociate, diffusione e sviluppi europei, ecc. Ci permettiamo di aggiungere qualche osservazione di tipo redazionale (riferendoci, in prevalenza, alle pp. 343-439 del secondo volume).
Pare che all’opera sia mancata una attenta revisione, della forma e dei contenuti. Disturba trovare refusi come poetrae per poetriae, artes dictamins per dictaminis; disturbano gli errori di francese antico e moderno, come Évangile aux femme invece che femmes oppure querelle des Anciennes (invece che Anciens) et des Modernes; oppure sainte Foy che, miracolosamente sdoppiata, diventa Saintes Foy. Non si può dire se la responsabilità sia redazionale o d’autore, come nel caso del titolo Comments d’amours, che pare alludere a un «commento» , mentre si tratta di un commens, «inizio» ; o di Li livres dou Tresor («Il libro», non «I libri» del Tesoro).
Insomma, i volumi diventeranno molto più pregevoli dopo una revisione attenta; ancora meglio se si aggiungerà un lessico dei tecnicismi e magari qualche informazione bibliografica. Chi vuole approfondire dove deve rivolgersi? I capitoli, forzatamente sintetici, sono poco più che degli aide-mémoire. E l’Indice si gioverebbe molto di riferimenti alle innumerevoli opere anonime, da citare per titolo, senza le quali l’elenco è dimezzato. Anche qui naturalmente occorrerebbe una revisione, così da non confondere, per esempio, la poetessa Maria di Francia con la contessa Maria di Champagne. Prosit.
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Inserito su www.storiainrete.com il 7 aprile 2011