Il 28 giugno il Papa ha inaugurato solennemente un altro giubileo: la Chiesa festeggia due millenni dalla nascita di Saulo di Tarso detto Paolo, l’“Apostolo delle genti”, l’uomo che più di ogni altro ha diffuso il cristianesimo tra i popoli che abitavano le sponde del Mediterraneo; secondo i critici avversi, l’uomo che avrebbe “inventato” il cristianesimo, che senza di lui sarebbe rimasto un’oscura setta marginale del mondo ebraico. Un’occasione straordinaria per la Chiesa per riflettere sul proprio compito, sulla missione “ad gentes”, sul rapporto fra il suo annuncio e le culture dei popoli che incontra, questioni tutte che si pongono in maniera drammatica e affascinante in questo terzo millennio che si è appena aperto.
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di Roberto Persico
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Da “Tempi” del 19 maggio 2008
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Un tema che affascina e riguarda da vicino Marta Sordi, professoressa emerita di Storia antica dell’Università Cattolica di Milano, che all’opera di Paolo ha dedicato una vita di studi, «dal punto di vista della storia romana – tiene a precisare – dello studio delle fonti, proiettando le notizie dei testi cristiani su quel che ci è noto dalla documentazione romana». Una conoscenza approfondita che presenterà e dibatterà nell’incontro del ciclo sul giubileo paolino promosso dal Centro culturale di Milano (vedi box nella pagina seguente) e che illustra con limpida chiarezza a Tempi.
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Professoressa Sordi, ancora oggi qualcuno sostiene che il cristianesimo sarebbe un’invenzione di san Paolo, lui avrebbe trasformato il culto di un’innocua setta ebraica in una religione universale.
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È del tutto falso. Tanto per cominciare, il primo ad aprire ai non ebrei non è Paolo, è Pietro. Gli Atti degli apostoli, capitolo 10, raccontano chiaramente la storia del centurione Cornelio, romano, battezzato senza essere circonciso; è Pietro che prende la decisione, che entra nella casa di un pagano sfidando le critiche degli altri apostoli, che nel primo concilio che si svolge a Gerusalemme si pronuncia contro l’obbligo della circoncisione: l’annuncio cristiano è per tutti, non solo per gli ebrei.
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Sì, ma Paolo non aveva conosciuto direttamente Gesù, gli apostoli raccontavano dei fatti, lui invece ha elaborato una teologia.
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Sempre in completa sintonia con la comunità degli apostoli. Come scrive nella lettera ai Galati, e come è riportato anche negli Atti, è andato due volte a Gerusalemme, la prima poco dopo la conversione, la seconda quattordici anni dopo, quando in tutte le chiese dell’Asia minore godeva già di grandissima autorità: e sempre per sottomettersi al giudizio di Pietro e di quelli che con lui – P aolo non fa nomi, ma verosimilmente dovevano essere Giacomo e Giovanni – erano le guide riconosciute da tutti. «Esposi loro il vangelo che io predico tra i pagani – scrive – per non trovarmi nel rischio di correre o di aver corso invano». Per non aver corso invano, capisce? Paolo sa benissimo che se predicasse qualcosa di diverso dalla fede degli apostoli la sua opera sarebbe vana.
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Quali sono dunque le caratteristiche fondamentali di quest’opera?
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Direi la presa di coscienza del “mistero nascosto nei secoli” della chiamata dei pagani, che nasce in lui durante la missione in Asia minore, e la capacità di rivolgersi a tutti, non escluse le autorità, i potenti, secondo il linguaggio e le forme più adatte a ciascuno. Due caratteristiche che si colgono fin dall’inizio. La missione di Paolo comincia infatti con il viaggio a Cipro. Qui lui predica, come sempre farà, in primo luogo alla comunità ebraica. Ma poi viene chiamato dal governatore romano dell’isola, Sergio Paolo, il quale, dicono gli Atti, «credette»; ed è proprio da qui in avanti che Paolo cambia il suo nome ebraico, Saul, prendendo non a caso il nome di quello che potremmo definire il suo primo convertito illustre. Il quale diventerà suo protettore, tanto che quando poi sbarca in Asia minore Paolo non si dirige nelle zone grecizzate della costa, ma in quelle più rozze dell’interno, dove la potente famiglia dei Sergi Paoli aveva terre e influenza. È qui, io credo, che Paolo acquisisce la consapevolezza che l’annuncio di Cristo è destinato, attraverso di lui, a tutte le genti; perché sempre rivolge il suo annuncio prima alla sinagoga, ma gli ebrei rispondono tiepidamente, quando addirittura non reagiscono duramente e cercano di trascinarlo davanti ai tribunali romani, mentre raccoglie seguito fra i gentili. Così a Corinto gli ebrei lo accuseranno davanti al proconsole di Acaia, Gallione, fratello di Seneca; il quale peraltro nemmeno prenderà in considerazione le accuse, perché gli paiono irrilevanti. A Efeso invece viene accusato dagli argentieri che prosperavano vendendo statuette di Diana Efesia e vedevano la propria attività rovinata dalla nuova religione; ma gli asiarchi intervengono a risolvere la situazione: in entrambi i casi vediamo come le massime autorità romane lo giudichino con benevolenza, segno evidente del fatto che sapeva come rapportarsi con loro.
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Poi viene il celebre sogno del macedone che lo implora di “passare il mare” e di portare anche in Europa l’annuncio di Cristo.
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Sì, anche se il desiderio di andare a Roma è presente da molto: è già formulato, secondo gli Atti, quando Paolo si trova a Efeso, ed è espresso anche nella Lettera ai Romani, che secondo la cronologia che io ho ricostruito risale al 53-54, non al 57 come generalmente si ritiene. Infatti tra le personalità romane che nomina ci sono Narciso, un liberto di Claudio morto nel 54, e Aristobulo, che nel medesimo anno venne mandato a governare la Piccola Armenia.
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Lei attribuisce grande importanza a questa revisione della cronologia tradizionalmente accertata. Perché?
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Perché con la cronologia tradizionale un sacco di questioni rimangono incomprensibili. Mentre con quella che propongo io – che si accorda con tutti i dati a nostra disposizione – ogni problema si chiarisce. Tutto dipende da un passo degli Atti (24,27), in cui si dice che «trascorsi due anni, Felice [il governatore romano della Giudea] ebbe come successore Porcio Festo; ma Felice lasciò Paolo in prigione»: generalmente, i due anni vengono riferiti alla prigionia di Paolo, mentre si tratta semplicemente della durata in carica di Felice, che fu governatore, secondo le fonti romane, nel 53-54. Dunque Paolo fu processato sotto il successore Porcio Festo nella prima metà del 55, in forza del suo status di cittadino romano si appellò a Cesare e fu quindi trasferito a Roma, dove giunse agli inizi del 56, e non dopo il 60, come generalmente si ritiene. Nel 56 era prefetto del pretorio Afranio Burro, amico di Seneca, uomo saggio e tollerante, e questo spiega le condizioni della prigionia di Paolo, una sorta di arresti domiciliari molto blandi, in cui era sorvegliato da un pretoriano ma poteva ricevere liberamente chi voleva. Poi venne assolto, verosimilmente da Burro, nella primavera del 58, e qui ha inizio il celebre epistolario con Seneca.
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Generalmente ritenuto un falso costruito nei secoli seguenti.
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Anch’io all’inizio ero convinta che fosse falso. Ma studiandolo con attenzione, e inserendolo nella nuova cronologia, ho cambiato parere. Due lettere sono sicuramente aggiunte a posteriori, diverse dalle altre per stile e lessico, e hanno per così dire trascinato con sé il giudizio sull’intera opera. Ma se eliminiamo queste due il resto io credo sia autentico. Si tratta di una corrispondenza amichevole, sovente poco più che biglietti, con allusioni a vicende quotidiane, a conoscenti comuni: se un falsario avesse voluto inventarsi un carteggio fra due personaggi del genere avrebbe scelto temi più impegnativi, non le pare? Poi c’è la questione dello stile: è un cattivo latino, si osserva, pieno di grecismi, segno che la lingua madre di chi le ha scritte era il greco. Ma, attenzione: i grecismi compaiono soltanto nelle lettere di Paolo, non in quelle di Seneca, che anzi in una gli rimprovera bonariamente il suo latino scadente e gli dà qualche consiglio su come migliorarlo. Ci sono poi un riferimento alla “lunga lontananza” di Paolo e una cono-scenza diciamo dall’interno della situazione politica, e una circospezione nel trattarla, che non potevano essere opera di un eventuale falsario.
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Vuole chiarire questi ultimi punti?
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Secondo la mia ricostruzione, Paolo rimase agli arresti domiciliari tra il 56 e il 58, venne quindi assolto, e qui si collocano le prime lettere con Seneca. Quindi, dal 59 al 62, c’è un vuoto, durante il quale Paolo si recò in Spagna. Tornò giusto in tempo per subire gli effetti nella svolta di Nerone: proprio in quell’anno morì Burro e Seneca perse il suo ascendente sull’imperatore, sostituito da quello della nuova moglie di lui, Poppea. E in una lettera di Seneca di questo periodo si fa cenno all’ostilità della «domina» nei confronti di Paolo, perché ha «abbandonato la religione dei padri». È un dettaglio fondamentale, perché Poppea effettivamente era giudaizzante, e quindi non guardava di buon occhio i cristiani, ma questo lo sappiamo da Flavio Giuseppe e da Tacito, i cristiani del secondo e del terzo secolo non lo sapevano. Inoltre tutto quel che riguarda gli ambienti di corte viene accennato con grande circospezione, come se i corrispondenti temessero che le loro lettere potessero cadere in mani sbagliate. Un falsario non avrebbe mai potuto avere questi riguardi.
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Paolo tornò anche giusto in tempo per essere di nuovo in disaccordo con Pietro prima che entrambi venissero condannati a morte.
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Guardi, tra Pietro e Paolo non ci sono mai, sottolineo mai, contrasti dottrinali. Potremmo dire che hanno due “stili pastorali” diversi: Pietro è più discreto nei confronti degli ebrei, tende a evitare contrasti; Paolo invece predica sempre in primo luogo ai connazionali, e solo in un secondo momento si rivolge ai gentili. Ma sono differenze di metodo e di temperamento, mai di dottrina. Da questo punto di vista anzi l’unità fra i due è uno dei fondamenti stessi della Chiesa di Roma. Una delle testimonianze più commoventi è un’iscrizione ritrovata a Ostia e databile agli inizi del II secolo o addirittura alla fine del I, riferita a un “Marco Anneo Petro Paolo”: Petro Paolo, capisce, è un cristiano che ha preso come cognome il nome di entrambi gli apostoli, indissolubilmente uniti. Pietro e Paolo: su questo binomio si fonda la Chiesa.
di Roberto Persico