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Salviamo la Storia! Dalla Francia, un appello anche per l’Italia

HumourIl mensile francese «Historia» (historia.fr) non è esattamente un giornale qualunque: pochi mesi fa, nel dicembre 2009, ha compiuto i suoi primi 100 anni di vita. Mentre state leggendo queste righe nelle edicole d’Oltralpe sarà in vendita il suo numero 765, segno che qualche interruzione nelle pubblicazioni nei decenni c’è stata ma non in grado, comunque, di insidiarne il primato di più antica rivista storico-divulgativa d’Europa. Per dare un’idea, in Italia, la tanto celebrata – a ragione – «Storia Illustrata» mondadoriana vide la luce solo nel dicembre 1957 e venne chiusa, nel 1990, da un certo Carlo De Benedetti nei pochi mesi in cui ebbe in mano la Mondadori.
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E quando Berlusconi la riottenne – con modi, si dice, per così dire “spicci” – non si curò di rimettere sul mercato quella testata gloriosa. Testata che, come fa «Historia» (e, con mezzi molto meno ricchi, anche «Storia in Rete») faceva divulgazione senza dimenticare di essere fatta da giornalisti, gente che se ama e sa fare il proprio mestiere (che non è così facile come sembra) usa tenere fissi alcuni riferimenti: in primis linguaggio chiaro e semplice anche – e soprattutto – per le questioni complicate. E poi impaginazione chiara e accattivante anche grazie all’uso di foto, cartine, dipinti, oggetti. Ma questo lo fanno – chi meglio chi peggio – un po’ tutti. Non tutti invece fanno il passo successivo che ad ogni giornalista dovrebbe venir spontaneo: farsi domande, notare le cose che non vanno, mettere in relazione fatti e notizie apparentemente non connessi tra loro. Da queste operazioni di base partono quelle cose che non tutti i giornali di Storia fanno ma che potrete trovare nei numeri di «Historia», nelle vecchie collezioni di «Storia Illustrata» e pure su «Storia in Rete»: inchieste, interviste, reportage, sondaggi e addirittura vere e proprie campagne giornalistiche. Insomma, tra le tante riviste di storia che si possono trovare in edicola, non solo in Italia, la differenza vera è tra chi ogni mese vuole raccontare delle belle storie e chi invece, ogni mese, cerca di collegare il passato al presente. Un presente sempre più occupato, devastato, inquinato dall’uso distorto (censure comprese) del passato. Proprio in questo fascicolo «Storia in Rete» dà la parola a Giampaolo Pansa sul tema del revisionismo e inizia un viaggio nei rischi e nelle possibili storture della più grande enciclopedia mai concepita – e  da qualche anno anche più consultata in tutto il mondo – grazie  ad internet: Wikipedia. Non potevamo farci quindi sfuggire – con la promessa di tornarci su ancora nei prossimi numeri – l’importante iniziativa presa dallo scorso luglio da «Historia»: una importante campagna giornalistica che non può lasciare indifferente nessuno, in nessun paese. L’appello lanciato dai colleghi francesi è drammatico: «Salviamo la Storia». Salviamola dalle manipolazioni politiche, dalle lacune e dalla superficialità della scuola, dalle leggi sulla memoria, e dai fessi… Un grido di insofferenza che giunge da una delle nazioni che più in avanti si è spinta negli ultimi decenni lungo la strada del politicamente corretto attraverso ben quattro leggi che fissano l’impossibilità di discutere determinati fatti storici pena gravi conseguenze legali. Citiamo dall’articolo di Véronique Dumas da
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Historia 
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di luglio 2010 (pp. 10-13): «Ma cos’è una legge sulla memoria? Una legge che proibisce a chiunque di discutere un fatto storico sotto la minaccia di conseguenze giudiziarie. Queste leggi sono attualmente quattro. La prima è la legge del 13 luglio 1990, detta “Legge Gayssot” “che mira a reprimere ogni atto razzista, antisemita o xenofobo”. Essa è stata seguita nel 2001 da due altre leggi, quella del 29 gennaio che, in un articolo unico, sancisce che “la Francia riconosce pubblicamente il genocidio armeno del 1915”; quella del 21 maggio, detta “Legge Taubira”, che mira al “riconoscimento della tratta e della schiavitù quali crimini contro l’umanità”. L’ultima è quella del 23 febbraio 2005, detta “Legge Mekachera”, in cui si “riconosce il debito della Nazione e il contributo nazionale a favore dei Francesi rimpatriati” dall’Africa del nord e dall’Indocina». Continua Véronique Dumas: «Ciascuna di queste leggi è stata promulgata in un contesto particolare. La “Legge Gayssot” è stata varata dopo i tentativi di mettere sotto inchiesta René Bousquet, dopo i processi Barbie, Touvier et Papon, giudicati per crimini contro l’umanità negli anni 1980-1990. [Bousquet, Touvier e Papon prima di divenire esponenti di punta dell’amministrazione della Francia repubblicana nel dopoguerra erano stati dirigenti dello stato di Vichy duranti gli anni del collaborazionismo francese con la Germania nazista, dal 1940 al 1944; Klaus Barbie era stato il capo della Gestapo a Lione negli stessi anni durante i quali aveva condotto operazioni molto dure contro partigiani ed ebrei, NdR]. In quello stesso periodo anche il negazionista Robert Faurisson, rimettendo in discussione, nuovamente, il genocidio degli ebrei, era stato condotto in giudizio nel 1990 davanti al Tribunale di Grande Istanza di Parigi». Come sottolinea l’editorialista di «Histoire» la legge Gayssot (che prende il nome, come le altre leggi della Memoria, dal deputato che l’ha proposta: il comunista Jean-Claude Gayssot) è soprattutto una legge penale che considera un delitto la contestazione di crimini contro l’umanità: «Le leggi del 2001 si sono poste in continuità con questa linea di lotta alla negazione di fatti storici accaduti, nel concreto il genocidio armeno, la schiavitù e la tratta degli schiavi. A questo si aggiunge, come nella Legge Gayssot, la volontà di riconoscere la fondatezza del dolore dei sopravvissuti o dei discendenti delle vittime di fronte alla negazione o, al contrario, all’apologia di questi fatti». Ognuna di queste leggi è stata accompagnata da forti polemiche e strascichi giudiziari: come quando, a seguito della legge Mekachera del 2005 – dal nome del deputato, originario dell’Algeria, Hamlaoui Mekachera – il governo di Parigi tentò di emanare una circolare in cui si precisava che i programmi scolastici avrebbero dovuto sottolineare il valore sostanzialmente positivo della presenza francese oltre mare, specialmente nell’Africa del Nord. Come è noto per il “politicamente corretto” (e quindi per lo “storicamente corretto”) il colonialismo non può essere mai stato un fenomeno, anche solo parzialmente, positivo. E così, mentre si dava inizio al solito balletto di manifesti e appelli in gara a chi catturava il maggior numero di firme (possibilmente prestigiose) di intellettuali variamente assortiti e/o di storici, si iniziavano a vedere le prime, inevitabili, conseguenze di questo approccio distorto alla Storia. Si tratta di fatti ed episodi che a fatica hanno potuto attraversare le Alpi al punto che per noi, in Italia, può sembrare sorprendente scoprire quanti processi su temi storici si tengano nei tribunali stranieri, specie in Francia, soprattutto a partire dagli anni Ottanta. Tra gli ultimi casi quello del professor Olivier Pétré-Grenouilleau, finito nei guai in seguito alla legge Taubira (dalla deputata originaria della Cayenna Christiane Taubira) del 2001 e alla sua interpretazione secondo un’organizzazione di cittadini originari delle Antille, della Guyana e delle Isole Reunion. La colpa di Pétré-Grenouilleau? «Aver dichiarato – citiamo ancora l’articolo della Dumas – che la tratta negriera non poteva essere qualificata come un genocidio poiché non aveva come scopo lo sterminio di un popolo. Pétré-Grenouilleau si è dispiaciuto anche per il carattere riduttivo della legge Taubira. Che riconosce e ricorda solo la deportazione operata dagli occidentali senza citare e considerare anche le tratte praticate dagli arabi e dagli stessi africani. In nessuna circostanza, egli ha rimesso in discussione il carattere di crimine contro l’umanità. La denuncia, in seguito, è stata ritirata ma questo primo caso giudiziario ha posto il problema della libertà di lavoro degli storici e della definizione per legge di una interpretazione intangibile della Storia col pericolo di finire sotto inchiesta. L’aggiornamento dell’interpretazione storica di un determinato fatto  alla luce di nuove fonti o l’approfondimento del suo studio grazie all’esplorazione di campi fino ad allora trascurati, si scontra ormai con il quadro restrittivo delle leggi della Memoria». Anche in Italia, con minor attenzione e foga – anche perché abbiamo meno leggi della memoria preferendo a queste le leggi istitutive di “giorni della memoria” per i quali, tra breve, il calendario non basterà più… – ci si è posti questi problemi.
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«Storia in Rete» Storia In Rete - Il sito ufficiale di Storia In Rete
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nell’aprile 2008 ha dedicato copertina e varie pagine al tema «La Casta e la Storia» proprio per raccontare come i politici italiani, di destra e sinistra, amino usare, dall’alto di una generale e solida ignoranza, la Storia – specie quella del XX secolo – in modo improprio. Ma è difficile riscontrare, da queste parti, la chiarezza delle enunciazioni messe nero su bianco da alcuni storici francesi nel dicembre 2005 nel manifesto «Libertà per la Storia» e che Pierre Baron, il direttore di «Historia», ha ricordato nel suo editoriale del luglio scorso. Si tratta, a ben vedere, di “verità essenziali”: «La Storia non è né una religione né una morale (“lo storico non ha il compito di esaltare o di condannare, lo storico spiega”). La Storia non è schiava dell’attualità. Lo storico non applica al passato schemi ideologici attuali e non introduce negli avvenimenti del passato la sensibilità d’oggi. La Storia non è Memoria. Lo storico, con un approccio scientifico, raccoglie i ricordi degli uomini, li confronta, li mette in relazione con i documenti, con gli oggetti, con le prove, e stabilisce i fatti. La Storia tien conto della memoria ma non si riduce ad essa. La Storia non è un oggetto giuridico. In uno Stato libero, non spetta né al Parlamento né all’autorità giudiziaria definire la verità storica. La politica dello Stato, anche quando ispirata dalle migliori intenzioni, non è la politica della Storia…». Ma perché
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«Historia» 
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ha deciso che, con l’estate 2010, era arrivato il momento di dire basta? I terreni di scontro sono ormai molti, come attestano le prime puntate della campagna: il primo mese si è parlato di leggi della memoria, il secondo (agosto) di scuola e programmi scolastici, a settembre sarà il turno di internet, a ottobre si vedrà… Ma è, ovviamente, intorno ai giovani che si gioca la partita più importante: non solo perché sono loro ad andare per lo più su internet o ad andare a scuola. Ma perché su di loro ogni nazione sana punta per rinnovarsi, migliorarsi, consolidarsi. Ma come fare tutto questo senza la Storia. In Italia, dove di continuo, da anni, si varano riforme scolastiche contraddittorie e prive di lungimiranza (come dimostrano certe scelte in campo storico) dovremmo valutare con attenzione quello che ha osservato Patricia Crété, sempre su
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«Historia» 
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ma questa volta di agosto 2010. Dopo aver fatto una serie di osservazioni confortanti per noi italiani (nel senso che si dimostra come gli idioti siano ben attivi – sotto la protezione dell’apparato burocratico statale – non solo da noi ma anche fuori dalle frontiere, in quell’Europa che istintivamente molti italiani guardano come un posto sempre e comunque migliore) ma decisamente amare in sé – su tutti il lamento per la fine del servizio militare obbligatorio per i ragazzi, visto come ultimo, sottile velo da opporre allo sfascio generale – la Crété scrive: «Oggi, il sentimento d’appartenere ad una comunità nazionale è scomparso; quasi ce se ne vergogna quando dovrebbe essere un onore, come accade in un gran numero di paesi. Quando la Marsigliese è fischiata allo Stade de France, è – anche – la scuola che ne è responsabile. E i genitori…».  E ancora chiediamoci perché
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«Historia» 
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ha scelto proprio l’estate 2010 per lanciare il suo grido di dolore? Perché con l’anno scolastico che inizierà tra poche settimane vedranno la luce i nuovi programmi di Storia che sembrano essere stati fatti da pericolosi dementi, tante sono le lacune e le omissioni scientificamente decise: «… con la riforma dei programmi che si mette in atto quest’anno “Historia” reagisce. E non siamo soli. Genitori di alunni rimpiangono l’abbandono della cronologia, i professori lamentano la sparizione di interi periodi della nostra Storia (basta con Clodoveo, con Giovanna d’Arco e Luigi XIV; il ruolo dei Francesi liberi durante la Seconda guerra mondiale [gli aderenti al movimento di liberazione fondato da De Gaulle dopo la disfatta del giugno 1940, NdR] considerato quasi inesistente). La Storia deve essere condivisa, unificante, aperta. I giovani devono conoscere i momenti fondanti della nostra Storia, devono scoprire le figure chiave che hanno forgiato il nostro Paese: quello in cui sono radicati da generazioni o quello che li ha adottati. Smettiamola di voler imparare ogni cosa, evitiamo di mescolare nozioni che non hanno nulla a che vedere tra loro (esempio: la cittadinanza, quella della Grecia antica e quella del 1789!). In sette anni di Secondaria, si ha il tempo di affrontare tutte le epoche, dall’antichità gallo-romana alla Guerra Fredda. E di dedicare qualche ora ogni trimestre a ciò che è accaduto, nel medesimo periodo, altrove. Allora perché i regni africani? Perché l’India dei Gupta? E perché non i Maya, la civiltà dell’Isola di Pasqua o gli Inuit?». Come non vedere che la battaglia dei francesi di «Historia» è anche la battaglia di chi in Italia non si vuole arrendere alla devastante stupidità di burocrati alleati – più o meno volontariamente – con i sacerdoti dello “storicamente corretto” e dell’integrazione a tutti i costi, un’integrazione che deve per forza passare, chissà perché, attraverso l’abbassamento delle cognizioni e della consapevolezza di sé di chi accoglie e non con l’innalzamento della preparazione di chi si deve integrare… Quante volte i segnali di cambiamenti epocali sono arrivati, nel corso della Storia, da Oltralpe per portare successivamente anche da noi i loro frutti, a volte buoni ma non di rado avvelenati? Anche «Storia in Rete» proverà – come già facciamo in fondo ogni numero da quasi cinque anni – a sensibilizzare i lettori italiani sulla necessità di «Salvare la nostra Storia». Un tema quanto mai attuale visto che le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità nazionale si avvicinano nella condizione che ben sappiamo e documentiamo da mesi. Intanto scriveteci e fateci conoscere le vostre esperienze ed opinioni. Come diceva qualcuno tempo fa «La Guerra continua»…
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Inserito su www.storiainrete.com il 28 settembre 2010
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