Nel 2009 due eventi, passati da noi quasi inosservati, senza richiamare quella attenzione che merita ciò che caratterizza la realtà politica e culturale europea, hanno riguardato la storia e la memoria del dramma centrale dello scorso secolo, la Seconda guerra mondiale e i due sistemi totalitari che, con la corresponsabilità dell’Europa, a essa hanno portato: il nazionalsocialismo e il comunismo. Il primo evento è un decreto emesso il 15 maggio scorso dal presidente della Federazione russa Dmitrij Medvedev per istituire una «Commissione presidenziale contro i tentativi di falsificare la storia che ledano gli interessi della Russia». Quale sia il significato di questo decreto è una questione che, evidente per i diretti interessati, gli storici russi, richiede, come vedremo, una particolare analisi per chi ignora il mondo politico e culturale russo postsovietico. Si può però già osservare, da una parte, la stranezza della precisazione «ledano gli interessi della Russia», quasi non fossero condannabili i «tentativi di falsificare la storia» che non ledano tali interessi, anzi li favoriscano. D’altra parte, l’istituzione di un’apposita commissione statale per combattere tali tentativi non può non richiamare alla memoria le iniziative censorie messe in atto nell’Urss contro i «falsificatori della storia», cioè della sua versione marxista-leninista, quasi ora in luogo dell’incriminazione di «antisovietismo» si affermasse quella di «antirussismo».
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Vittorio Strada su “Avvenire” del 12 settembre 2010
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Il secondo evento non ha avuto come sede Mosca e il Cremlino, ma Vilnius e l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa: il 3 luglio 2009 la sua assemblea ha approvato a larga maggioranza una risoluzione dal titolo «L’Europa divisa riunita: promuovere i diritti umani e le libertà nel XXI secolo», il cui testo proclama il 23 agosto, giorno in cui settant’anni fa fu firmato il patto Ribbentrop-Molotov, «giornata europea della memoria delle vittime dello stalinismo e del nazismo» onde «preservare il ricordo delle vittime delle deportazioni di massa e degli stermini». Inoltre l’Assemblea ha esortato gli Stati partecipanti a «proseguire le ricerche sull’eredità totalitaria» per accrescere «la coscienza pubblica riguardo ai crimini commessi dai regimi totalitari». È inutile dire che la delegazione russa tentò invano di bloccare questa risoluzione, lasciando infine l’aula in segno di protesta, un atteggiamento che poi continuò da parte di esponenti del governo russo, indignati che stalinismo e nazismo fossero messi sullo stesso piano come criminosi regimi totalitari, le cui vittime erano ugualmente meritevoli di commemorazione: ciò era considerato un «pubblico insulto ai russi», quasi si fosse dimenticato che questi avevano dato un decisivo contributo di sangue nella guerra contro il nazismo. Si trattava, come disse il portavoce del Ministero degli Esteri russo, di un «tentativo di deformare la storia a fini politici», insomma di una vera e propria «falsificazione».
Se si precisa che la Commissione istituita dal presidente Medvedev aveva come suo primo obiettivo, oltre a una più ampia visione dell’intera storia sovietica, i «tentativi di falsificare» proprio la storia della Seconda guerra mondiale ovvero della Grande guerra patriottica, come questa fu chiamata nell’Urss ed è tuttora chiamata nella Federazione russa, si può capire che è proprio questo periodo della storia del XX secolo, che va dalla fine degli anni Trenta a tutta la prima metà degli anni Quaranta fino alla successiva Guerra fredda, a costituire un punctum dolens per l’attuale gruppo dirigente russo, impegnato a elaborare e imporre una sua interpretazione di questa storia in quanto momento centrale e culminante di tutta la storia sia russa che sovietica. Il fatto è che la storia della Seconda guerra mondiale, che per gli storici in generale è, come la storia di tanti altri periodi, non priva di problemi, ma sostanzialmente chiara, nella Russia di oggi è un problema inquietantemente aperto in quanto aperta è l’interpretazione di tutto il passato sovietico e, in particolare, dello «stalinismo», termine ambiguo, perché con esso non si intende la quintessenza dell’esperimento comunista, basato sul pensiero-azione di Lenin e ispirato dalle idee di Marx, ma una sorta di fenomeno a sé, degenerativo e nello stesso tempo essenziale, rispetto al periodo sovietico, quasi allo «stalinismo» e personalmente a Stalin si volessero addossare tutte le colpe e i crimini del comunismo, salvaguardandone però i risultati, cioè il trionfo nella guerra antinazista, l’ampliamento nell’«impero» sovietico e la trasformazione dell’Urss in superpotenza nucleare.
Di qui la rinascita del mito di Stalin in tanta parte dell’opinione pubblica russa d’oggi. Di qui anche la questione scottante dell’insegnamento della storia del periodo sovietico nelle scuole russe e il dibattito in corso sui manuali di tale insegnamento, manuali che tendono a diventare un manuale unico, dettato dall’alto nello spirito della Commissione istituita da Medvedev contro i «falsificatori», dopo gli anni di pluralismo e liberalismo postsovietico oramai al tramonto. La campagna iniziata in Russia contro le «falsificazioni della storia», «lesive» degli interessi dello Stato russo, riguarda, come s’è detto, in primo luogo la Seconda guerra mondiale. Parallelamente alla istituzione della Commissione presidenziale da parte di Medvedev il ministro della Protezione civile Sergej Shoigù aveva avanzato l’idea di promulgare una legge per perseguire penalmente chi si rendesse colpevole della «negazione della vittoria dell’Unione Sovietica nella Grande guerra patriottica», incriminazione che suona davvero strana perché neppure il più accanito «antisovietico» o «antirusso» oserebbe negare un fatto così evidente e conclamato. Vuol dire che come «negazione» si intende una interpretazione di tale vittoria diversa dalla versione ufficiale che il gruppo dirigente russo oggi intende dare a un avvenimento che per il popolo russo costituisce l’unico indiscusso e indiscutibile motivo d’orgoglio di tutta la storia sovietica, ragion per cui l’anniversario di tale vittoria (il 9 maggio) è celebrato con la massima solennità, a differenza dell’anniversario della «Rivoluzione d’ottobre» che non è più neppure una festività.
Vediamo allora quali sono i momenti cruciali della Seconda guerra mondiale, la cui interpretazione storica difforme dalla versione ufficiale viene considerata una «falsificazione» da punire, anzi addirittura l’equivalente della «negazione» della vittoria sul nazismo. Il primo punto riguarda il patto Ribbentrop-Molotov e la spartizione tra la Germania nazista e l’Unione Sovietica delle sfere di influenza dell’Europa orientale, secondo quanto stabilito nel protocollo segreto del patto, il quale di fatto favorì l’inizio della Seconda guerra mondiale, lasciando a Hitler le mani libere per l’attuazione dei suoi piani espansionistici. Connessa a questo punto è l’occupazione da parte dell’Armata Rossa dell’Ucraina e della Bielorussia occidentali, in base al patto, e l’aggressione contro la Polonia, aggiungendo poi (1940) l’annessione all’Urss dei Paesi baltici, per non dimenticare infine un eccidio come la fucilazione di ventiduemila cittadini polacchi a Katyn. La contro-versione è che il patto Hitler-Stalin fu la risposta agli accordi di Monaco del 1938, ossia una misura necessaria per la sicurezza dell’Urss, anche se è evidente la sproporzione tra questi due eventi: Monaco fu un riprovevole cedimento delle democrazie occidentali con l’illusione di «placare» l’aggressione nazista (la cessione alla Germania dei Sudeti doveva essere la garanzia del nuovo confine della Cecoslovacchia e non la premessa della sua distruzione, il che è una notevole differenza rispetto alla spartizione di territori e alla collaborazione economica e militare tra la Germania e l’Unione Sovietica). Un’altra contro-versione ufficiale è che l’Armata Rossa non «occupò» nuovi territori, ma «liberò» l’Ucraina e la Bielorussia occidentali per difendere i fratelli slavi dall’invasione germanica, come poi «liberò» i Paesi baltici e, dopo la fine della guerra, non li «annesse», ma li «riunì» con il loro consenso all’Urss.
Quanto poi all’eccidio di Katyn, si sarebbe trattato di un crimine commesso dai tedeschi (in realtà è appurato che questa versione è falsa e che gli autori dell’eccidio furono i sovietici, come è stato finalmente riconosciuto in maniera ufficiale da Vladimir Putin il 7 aprile 2010).
Un problema a parte, molto complesso e dibattuto, riguarda l’intenzione di Stalin di sferrare il primo colpo contro Hitler in una guerra «rivoluzionaria» che avrebbe dovuto estendere l’area del socialismo all’Europa occidentale (sui progetti staliniani di espansionismo bellico-rivoluzionario si hanno chiare testimonianze nel Diario del segretario generale del Komintern Georgi Dimitrov, e curiosa è la dichiarazione fatta da Stalin a Thorez che, se non ci fosse stato lo sbarco degli alleati occidentali in Normandia, l’Armata Rossa avrebbe «liberato» anche Parigi). A questo proposito la discussione che si è svolta, e si svolge, promossa dal libro di Viktor Suvorov “Il rompighiaccio”, dove si sostiene la tesi della guerra preventiva vagheggiata e programmata contro Hitler da Stalin, prevenuto però dal dittatore nazista, è così vasta, e tutt’altro che univocamente conclusa, da impedire qui un suo approfondimento. Si aggiunga il problema del numero delle perdite subite dall’Armata Rossa, un numero che è quasi dieci volte superiore a quello delle perdite avversarie (tedesche), con il conseguente problema, oltre a quello della particolare violenza dell’aggressione subita, del tipo di conduzione della guerra da parte del Comando sovietico e dello stesso Stalin, fatto senza economia di vite umane, come nessuna «economia» di vite era stata fatta in precedenza nella collettivizzazione forzata delle campagne sovietiche e nella repressione dei «nemici del popolo», secondo una spietatezza propria del regime totalitario.
Non meno importante è il problema della situazione postbellica, con l’inclusione diretta o indiretta nella sfera sovietica di vastissimi territori, considerati «liberati» dal giogo fascista e beneficiati dal regime «socialista» secondo i sovietici e, al contrario, «occupati» con una nuova oppressione e sottomessi a un nuovo regime totalitario, secondo i democratici di tali territori e alfine secondo la maggioranza delle loro popolazioni nel periodo terminale del dominio comunista. Come si vede già da questo elenco, che potrebbe allungarsi, i punti dolenti, e controversi, della Grande guerra patriottica sono numerosi e scottanti e l’accusa di «falsificazione» non è il mezzo per trattarli e dirimerli. Gli «interessi della Russia» non dovrebbero essere considerati «lesi» da una libera ricerca storica, orientata in varie direzioni, che può trovare la sua unica verifica di verità nell’onestà intellettuale e professionale degli storici e nel libero confronto delle loro ricerche.
L’altro tema o problema, sollevato dall’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, cioè la comparazione strutturale e il rapporto storico tra i due totalitarismi, comunismo e nazionalsocialismo, è anch’esso legato all’insieme di questioni che sopra si sono delineate per la Seconda guerra mondiale, ed è di una tale complessità da richiedere una trattazione analitica e quindi da esulare dalla possibilità di un suo approfondimento in questa sede. Del resto, la stessa comparazione tra i due totalitarismi, che in un non ancora remoto passato (e spesso anche nel presente, come dimostrano le reazioni ufficiali alla risoluzione dell’Osce) poteva ad alcuni parere «sacrilega» alla luce di un antifascismo ideologizzato e univoco, fortunatamente è, per la ricerca storica e teorica libera, diventata normale, anzi necessaria e feconda, come è dimostrato da numerosi lavori al proposito. Naturalmente, si tratta di una comparazione che mette in luce ciò che c’è di comune e ciò che c’è di diverso tra i due maggiori totalitarismi, nazista e comunista (non «staliniano» soltanto, dato che lo «stalinismo» è stato solo la fase centrale del comunismo come realtà storica), a parte poi la questione se il fascismo italiano sia stato un totalitarismo compiuto, come gli altri due, o non piuttosto un totalitarismo imperfetto e mancato, nonostante le sue esplicite aspirazioni, per la presenza di due istituzioni «limitative» come la monarchia e la Chiesa. Il paradosso tragico della storia europea dello scorso secolo è che ci si è trovati a dover scegliere tra due epidemie per poi alla fine, debellata l’una, mettersi a combattere anche l’altra.
Stando così le cose, a prescindere da «falsificazioni lesive» o no per il potere sovietico ieri e russo oggi, la letteratura di lingua russa sulla Seconda guerra mondiale ovvero sulla Grande guerra patriottica è di particolare interesse e in essa spicca indubbiamente un libro come “Vita e destino” di Vasilij Grossman, ad esempio, che, scritto in condizioni estreme di controllo ideologico e censorio totale, riesce ad abbracciare la problematica sopra delineata. A questo romanzo eccezionale, che ha avuto la debita fortuna tra i lettori occidentali, si possono aggiungere, come veridiche visioni della guerra nella sua asprezza e crudezza, “I dannati e i morti” di Viktor Astaf’ev, purtroppo ignoto in Italia, e, come espressione della realtà bellica quotidiana, vissuta e vista dal «basso», dalla truppa combattente, “Nelle trincee di Stalingrado” di Viktor Nekrasov, futuro «dissidente » (che vinse nel 1947 un Premio Stalin).
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Inserito su www.storiainrete.com il 16 settembre 2010