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Storia, non storie

Rosario Romeo. Perché vale ricordare lo storico della Nazione

Non si può far passare questo ottobre del 2024 senza ricordare con ammirazione e rimpianto (per la sua precoce scomparsa) il centenario della nascita in Sicilia di Rosario Romeo (11 ottobre 1924), lo storico italiano più coraggioso e innovativo (insieme, probabilmente, a Renzo De Felice) della seconda metà del 900.    

Rimanendo sempre fedele ai suoi Maestri dell’altra metà del secolo: Benedetto Croce e Gioacchino Volpe, ma anche Federico Chabod, Romeo fu tra i pochissimi che nel secondo dopoguerra si mosse sulla rotta nazional-liberale tracciata da loro, contrastando a viso aperto la linea interpretativa marxista o marxisteggiante prevalente in quegli anni nella storiografia italiana e in genere in tutto l’ambiente culturale e universitario.

Erano gli anni dell’egemonia comunista nel nome di “Sant’Antonio Gramsci”, come scriverà Romeo, che del leader comunista criticò la tesi del Risorgimento come rivoluzione incompiuta, in quanto conclusa senza il coinvolgimento delle masse contadine e proletarie in genere.

Nel fondamentale volume Risorgimento e capitalismo, uscito nel 1959 raccogliendo due precedenti saggi, lo storico siciliano dimostrò, documenti alla mano, che proprio quella conclusione, con la formazione di capitali nelle campagne, permise la creazione di quelle infrastrutture indispensabili per mettere in piedi le industrie degli anni successivi. Le polemiche si sprecarono, ma Romeo continuò imperterrito, incurante dell’ostilità di gran parte del mondo accademico e delle riviste specializzate.

Negli anni successivi proseguì la sua battaglia intellettuale, da storico, ma anche da politico, intervenendo sui quotidiani, prima sul Corriere della sera, poi sul Giornale di Indro Montanelli, per le sbandate a sinistra della vecchia testata, che ormai flirtava apertamente con i salotti radical chic. Divenne la bestia nera di tutte le sinistre e in particolare dei sessantottini e dei loro eredi, al punto che nel 1977 si vide puntare una pistola alla tempia in un’aula della sua università, la Sapienza di Roma. Fu quindi costretto, a malincuore, a transitare l’anno successivo all’università privata Luiss, di cui divenne anche rettore, per poi approdare al Parlamento europeo, dove venne eletto nel 1984 nelle liste del PRI.

Già dalla metà degli anni ‘50, su sollecitazione di Chabod, aveva cominciato a mettere mano a quello che sarebbe stato il lavoro della sua vita: la biografia di Cavour, che nella sua ottica coincideva con i valori e i le conquiste del Risorgimento.

La ricerca lievitò tra le mani dello studioso strada facendo, traducendosi in tre ponderosi volumi di quasi 3000 pagine. Nel primo volume, uscito nel 1971, l’autore dichiarava che si trattava di un libro “alla ricerca dei propri lettori”, ma nell’ultimo volume, del 1984, doveva concludere, che nell’Italia di quegli anni si era ormai consumata “la totale dissoluzione dell’eredità del Risorgimento”. Ne era testimonianza, tra l’altro, lo scarsissimo numero di recensioni che l’opera aveva ricevuto, in particolare da parte delle riviste ‘scientifiche’ del settore, controllate da una sinistra per niente disposta a dare a Romeo quello che era di Romeo, ovvero il riconoscimento di aver realizzato la ricerca scientifica più approfondita e documentata sul principale regista e artefice della riscossa nazionale.

Un’altra eco dello stato d’animo dello studioso in quegli anni si può trovare nella voce Nazione da lui scritta per l’Enciclopedia del 900 della Treccani. Parlando dell’Italia, nel capitolo dedicato, Romeo scriveva che “a 30 anni dalla fine della Seconda guerra mondiale si può dire… che i valori nazionali occupano un posto sempre minore e più sbiadito tra i criteri direttivi della vita nazionale”.  E a conferma di questo citava un caso paradossale. Il libro di maggior successo di quegli anni, in campo storiografico, era la Storia d’Italia dell’inglese Denis Mack Smith, un autore, osservava, che “nega agli italiani come popolo ogni attitudine a una vita politica modernamente organizzata”.

Eppure… Eppure vorrei concludere con un ricordo personale. Nei primi mesi del 1987 stavo curando presso l’Archivio Centrale dello Stato l’organizzazione di una mostra storico-documentaria sulla Nascita della Repubblica, che sarebbe stata inaugurata a giugno dall’allora Presidente Francesco Cossiga. Rosario Romeo faceva parte del Comitato scientifico della manifestazione ed ebbi quindi occasione di confrontarmi più volte con lui sui documenti selezionati e sui criteri con cui presentare la mostra.

Mi colpì l’attenzione con cui tendeva a valorizzare gli elementi che documentavano gli sforzi dell’Italia in quegli anni di transizione per il recupero di una piena sovranità dopo la disfatta della guerra. Mi sembrò che il suo pessimismo della ragione fosse ancora temperato dal desiderio di sperare in una ripresa dello spirito nazionale.

Il grande storico venne a mancare il 16 marzo di quell’anno e non poté vedere la mostra finita. Ma oggi, quando tutti, a torto o a ragione, si proclamano liberali (cosa quasi impossibile ai tempi di Romeo) e molti evocano nei loro discorsi la parola Nazione, credo che sia il momento giusto per riaprire i libri dello storico siciliano e recuperare quanto resta ancora di attuale nella sua lezione.

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