Dall’Archivio Centrale dello Stato emergono i verbali del Consiglio dei Ministri del 1859-1861, pubblicati ora integralmente. Furono quelli gli anni cruciali per l’Unità italiana. I verbali – voluti da Cavour stesso – gettano una luce documentaria su quel periodo, e restituiscono a quegli eventi – troppe volte resi oleografici o denigrati – la loro dimensione storica reale
di Aldo G. Ricci, tratto da “Storia in Rete” n° 40
Primo gennaio 1859. Camillo Benso conte di Cavour, primo ministro del Regno di Sardegna, decide che si debba tenere un verbale delle riunioni del Governo. Qual è la ragione profonda che lo induce a compiere questa scelta? La domanda ha un suo fondamento, perché è proprio da quella data che cominciano i verbali dei consigli dei ministri, nati per richiesta dello stesso Cavour e poi in seguito disciplinati da precise regole. La risposta ha due facce. La prima, ovvia, perché il conte ritiene opportuno che resti traccia delle decisioni prese. Ma la seconda è legata alle circostanze straordinarie che la Penisola si appresta a vivere. Con il 1859 si apre infatti un ciclo di eventi straordinari che culmineranno il 17 marzo del 1861 con la proclamazione del Regno d’Italia, sotto la guida di Vittorio Emanuele II, e Cavour, che sa, almeno in parte, quello che si sta preparando, ritiene indispensabile che di questo resti traccia documentata. Quindi un biennio straordinario che si snoda con l’efficacia di una scenografia trascritta in diretta, nel corso delle numerose sedute di quei mesi, seguendo il corso tempestoso degli eventi. Una prosa spesso burocratica e neutra che tuttavia non nasconde la dirompente drammaticità e grandezza del momento storico. Di qui la scelta di pubblicare quei verbali, che si chiudono il 6 giugno del 1861 con il drammatico annuncio, nel corso della seduta, della scomparsa del conte di Cavour, l’uomo che aveva guidato la politica verso l’approdo unitario e aveva voluto che ne restasse traccia nei documenti del Consiglio.
I due anni che danno vita all’Italia come Stato unitario (anche se mancano ancora Venezia e Roma, per le quali bisognerà aspettare il 1866 e il 1870) si presentano con due facce: una tradizionale, nei binari delle guerre tra Stati e della diplomazia, e l’altra rivoluzionaria. La seconda guerra d’Indipendenza, che vede il Piemonte e la Francia uniti contro l’Austria per gli sforzi diplomatici di Cavour, è la prima faccia di quel biennio, e il risultato è la liberazione della Lombardia. Ma l’Italia tutta comincia a scricchiolare, a partire dagli Stati dell’Italia centrale che cacciano i sovrani e chiedono l’annessione al Piemonte. E’ soprattutto il grande Regno delle Due Sicilie a preoccupare la diplomazia internazionale, con i focolai di rivolta che si accendono a ripetizione. Siamo ormai nella primavera del 1860 e Garibaldi, dopo molte esitazioni, è pronto a muoversi per quella che diventerà la sua impresa più gloriosa: la spedizione dei Mille, che in poche settimane si trasforma in un esercito di liberazione in grado di aver ragione del forte esercito borbonico e consegnare un regno a Vittorio Emanuele II. I verbali che vengono proposti su queste pagine raccontano appunto le contraddizioni, i timori, gli entusiasmi di quei giorni magici, quando il realista Cavour, sempre tormentato dal timore che la costruzione unitaria, alla quale è ormai interamente conquistato, dopo anni di preparazione e di dubbi, possa venire compromessa dal movimentismo incontenibile di Garibaldi e dai tentativi di Mazzini di portare la rivoluzione fino a Roma.
Cavour sa che l’Inghilterra è favorevole alla fine della dinastia dei Borbone di Napoli, ma sa anche che la Francia è turbata dal precipitare degli eventi e che non ha messo affatto in conto un’Italia unita dalle Alpi alla Sicilia. L’Austria è sconfitta ma non doma, e se la Roma dei Papi fosse in pericolo gli equilibri potrebbero facilmente rovesciarsi e il castello unitario precipitare. Di qui la straordinaria occasione che offre la lettura dei verbali di quei mesi, dove si legge la preoccupazione di allontanare dal governo piemontese il sospetto di aver favorito la spedizione di Garibaldi, le rassicurazioni date a Francesco II di Borbone circa le intenzioni del governo di Torino di non interferire negli affari interni del Regno delle Due Sicilie, ma anche la sostanziale volontà di assecondare il corso degli eventi se questi evolveranno verso una soluzione favorevole all’annessione. Parallelamente, emerge con drammatica chiarezza il timore che la situazione possa sfuggire di mano. Sono espliciti i riferimenti al «pericolo Mazzini», come anche gli inviti al ministro dell’Interno, Luigi Carlo Farini, perché faccia «cessare l’esistenza funesta di uno Stato nello Stato», cioè l’attività dei comitati garibaldini (le «sette», come vengono definiti), che in tutta Italia si muovevano per estendere il movimento rivoluzionario.
Gli avvenimenti si conclusero come sappiamo e la leggenda si prese poi l’incombenza di trasfigurarli come i manuali scolastici di storia ce li hanno insegnati per decenni. Ma i verbali, seguendo l’evolversi della spedizione in diretta e i riflessi che questa evoluzione aveva sugli equilibri politici a Torino, ci dicono quanto la conclusione positiva non fosse affatto scontata. In questo senso rappresentano la migliore testimonianza del genio politico di Cavour e del suo realismo, che in quei mesi trovò un difficile equilibrio con il movimentismo rivoluzionario di Garibaldi, dando vita a un sodalizio irripetibile al quale si deve, in definitiva, l’esito positivo del processo unitario. Alla vigilia del 2010 (duecentesimo della nascita di Cavour) e ancor più del 2011 (150° dell’Unità d’Italia), al di là dei riti di commemorazione che si celebreranno, vale davvero la pena di rileggere le pagine che registrano, nel vivo degli avvenimenti, emozioni, entusiasmi e incertezze di alcuni dei protagonisti dei giorni che hanno visto compiersi il sogno unitario dei patrioti del Risorgimento.
Aldo G. Ricci