Dopo 200 anni, Haiti batte cassa. E Parigi ci pensa…

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Nel 200° del riconoscimento francese dell’indipendenza della repubblica caraibica, le polemiche infuriano. Nel 1825 re Carlo X chiese un «riscatto» pari a quattro miliardi di euro che ora gli haitiani considerano «l’origine di tutti i mali» del loro Stato fallito. Macron, alle lamentele dell’ex colonia, prima ha fatto la voce grossa, poi ha ritrattato. Convocando una commissione di storici…

Emanuele Mastrangelo da Storia in Rete speciale n. 16

Niente di meglio degli anniversari tondi per rinfocolare qualche polemica. Oltralpe (e oltreatlantico) il tema di queste settimane, a livello storico, è il 200° del riconoscimento francese dell’indipendenza di Haiti, al quale il mensile francese «L’Histoire» ha dedicato la copertina di maggio. Un riconoscimento interessato, pagato a caro prezzo dall’ex colonia a re Carlo X di Borbone nel 1825: 150 milioni di franchi-oro promessi da Port-au-Prince a Parigi sotto la minaccia della flotta francese. L’avvicinarsi dell’anniversario ha visto i toni fra Francia e Haiti inasprirsi già da un annetto: a margine del G20 di Rio de Janeiro, il 19 novembre 2024, il presidente francese Macron era stato ripreso in un video mentre parlava con un passante, presumibilmente un haitiano, che lo accusava di essere responsabile della crisi in Haiti. Macron avrebbe risposto commentando duramente la politica interna dell’isola e aggiungendo: «Sono gli haitiani che hanno distrutto Haiti lasciando proliferare il narcotraffico».

Ora, in occasione del duecentenario in questione, il 17 aprile scorso, l’inquilino dell’Eliseo ha fatto retromarcia annunciando la costituzione di una commissione di studio. Al suo vertice un’accademica haitiana, Gusti-Klara Gaillard-Pourchet, e uno storico e diplomatico francese, Yves Saint-Geours. Nella stessa giornata i sindaci di Nantes, La Rochelle e Bordeaux (rispettivamente socialista, indipendente di sinistra e verde) – tre porti coinvolti nel XVIII secolo nella tratta degli schiavi – hanno lanciato un appello perché la Francia avvii una politica di risarcimenti verso l’ex colonia.

Quella del «debito» contratto dall’Europa (e in generale dai bianchi) nei confronti dei popoli «di colore» a causa dello schiavismo e del colonialismo è uno dei principali cavalli di battaglia del wokeismo militante, «istituzionalizzato» negli USA, durante la presidenza Biden, con la sostituzione surrettizia del Columbus Day con una «giornata dei popoli indigeni». Alla base della narrativa wokeista è che i bianchi sarebbero responsabili dell’attuale situazione di sottosviluppo delle popolazioni ex coloniali e della popolazione di colore che vive nei paesi bianchi o ex tali. Haiti rivendica dunque nei confronti di Parigi il riconoscimento del fatto che la situazione attuale di «Stato fallito» della repubblica caraibica sia «colpa» dei francesi. I quali – ça va sans dire – devono ora mettere mano alla tasca e risarcire gli haitiani.

Le cose sono al solito un po’ più complesse e la polemica fra gli accessi di grandeur di Macron e il «fine pena mai» preteso dagli wokeisti ai danni delle presunte o vere responsabilità dei bianchi nasconde un passato in cui, come si vedrà, «il più pulito c’ha la rogna». Partiamo dal riscatto chiesto agli haitiani nel 1825. Non c’è dubbio che esso andò a configurare un caso di neo-colonialismo ante litteram, legando mani e piedi la giovane repubblica caraibica ai creditori francesi. Nell’aprile di due secoli fa la Francia pretese da Haiti un risarcimento per gli espropri e per i massacri commessi dagli ex-schiavi in rivolta. Il paese infatti era passato da uno stato di guerra civile in seguito all’arrivo oltreoceano delle idee rivoluzionarie (con la «Rivoluzione haitiana» scoppiata nell’agosto 1791) alla dichiarazione d’indipendenza del primo gennaio 1804, passando per il tentativo napoleonico di riportare l’isola sotto controllo francese fra 1802 e 1803. Il fallimento dell’impresa bonapartista culminò con lo sterminio quasi totale dei bianchi di Haiti, letteralmente macellati fra gennaio e aprile 1804 rendendo l’isola etnicamente composta da africani e mulatti al 99%. Di fatto, tutt’oggi Haiti è una «nazione africana» fuori dal continente nero.

La rabbia scatenata a più riprese dagli schiavi insorti durante le guerre civili e d’indipendenza di Haiti è stata spesso spiegata con il brutale trattamento a cui i proprietari francesi sottoponevano i loro servi. Haiti, o Saint-Domingue, com’era chiamata allora, era la colonia più lucrosa dell’impero coloniale francese, giungendo a produrre quasi il 60% del fabbisogno di caffè e il 40% dello zucchero dell’intera Europa. Non c’è dubbio che il mezzo per ottenere simili produzioni passasse attraverso un disumano sfruttamento della manodopera servile, tanto brutale che l’isola doveva rimpolpare la propria forza lavoro importando continuamente schiavi per sostituire quelli periti di malattie, fatica o uccisi in vari modi nelle piantagioni. Pare che l’aspettativa di vita degli africani nelle piantagioni fosse di appena 21 anni, con un terzo degli schiavi che moriva entro un anno dall’arrivo. Per paragone, l’aspettativa di vita delle classi inferiori in Francia era di 25-30 anni: per quanto le condizioni dei «miserabili» francesi, Victor Hugo docet, fossero davvero bestiali, agli schiavi nei Caraibi erano riservati picchi di crudeltà che superavano perfino quelle dei famigerati bagni penali di Tolone.

Ma anche qua occorre calarsi nel tempo: il XVIII secolo non era solo quello dei minuetti al clavicordio nella Sala degli Specchi a Versailles, ma anche quello del supplizio di Damiens, l’attentatore di Luigi XV squartato in pubblico a Parigi nel 1757. In pieno 1791 (due anni dopo la proclamazione degli «immortali principi»…) un gruppo di ribelli creoli guidato da Vincent Ogé venne giustiziato a Santo Domingo dopo aver subito il supplizio della ruota. La società haitiana era profondamente razzista, come si è detto: al suo vertice c’erano i francesi, spesso nobili, mentre al fondo gli schiavi africani. In mezzo una popolazione di borghesi bianchi e meticci, a loro volta divisi in ben 32 classi sulla base del colore della pelle… Questa società (come avverrà spessissimo in seguito, con il suo acme nel Congo leopoldino) aveva pensato bene di non estendere leggi e tutele bianche agli africani, lasciando in auge per costoro il «diritto» penale indigeno. «Diritto» costituito da pene fantasiose e orrende. Del resto lo stesso istituto della schiavitù nella tratta atlantica è di fatto un’estensione di usi e costumi africani opportunisticamente applicati dagli europei per le loro brame produttive. Essere dunque uno schiavo ad Haiti significava affrontare un inferno fatto di usi e costumi africani usati come strumento di repressione, ma con efficienza europea. Il tutto per nulla temperato da padroni, i francesi, che non esitavano a trattare alla stregua d’animali i loro simili del «quarto stato», figurarsi quelli di altre razze…

Comunque, una volta ottenuta l’indipendenza Saint-Domingue cessò d’essere la «perla dei Caraibi». Fuggiti o sterminati i bianchi, l’isola piombò nel caos tanto che i capi rivoluzionari dovettero perfino ristabilire una sorta di «servitù della gleba» per gli ex schiavi liberati, poiché le piantagioni erano oramai in abbandono. Nel 1804 i signori della guerra locali si spartirono Haiti in un «impero» nel nord e una repubblica a sud, il cui leader, il mulatto Alexandre Pétion, si comportò come una sorta di Castro ante litteram, inviando aiuti alle ribellioni anti-spagnole in America latina. Nel più classico tentativo delle elite post-coloniali di esportare i problemi interni, nel 1821 il successore di Pétion, Jean Pierre Boyer, dopo aver riunificato Haiti invase Santo Domingo nel tentativo di dominare tutta l’isola di Hispaniola. Il risultato fu un ventennio di brutalità commesse ai danni della maggioranza mestiza, cioè meticcia, e spagnola (gli schiavi africani erano oramai una esigua minoranza della popolazione, a Santo Domingo), che nel 1844 riuscì a riottenere l’indipendenza. L’unico vantaggio ottenuto da Santo Domingo fu l’abolizione della schiavitù, peraltro sostituita dal servizio militare obbligatorio e, come ad Haiti, dal lavoro coatto dei contadini nelle piantagioni.

Fu durante il regime di Boyer che il sovrano francese Carlo X (l’ultimo dei Borbone, fratello cadetto di Luigi XVI) riuscì a estorcere il «riscatto» di 150 milioni di franchi-oro per il riconoscimento dell’indipendenza. Undici navi da guerra francesi si presentarono davanti alla capitale caraibica cannoni spianati e Boyer accettò la pretesa francese, anche perché Haiti era praticamente isolata da tutti gli Stati del mondo, compresi gli USA, dove l’eco dei massacri compiuti dagli ex schiavi contro i bianchi aveva inorridito i successori di Washington (e sarebbe stato a lungo uno dei principali argomenti contro ogni forma d’emancipazione degli schiavi nel Sud). Haiti aveva dunque bisogno del riconoscimento dell’ex madrepatria per uscire dalla quarantena. La cifra che avrebbe dovuto risarcire l’Esagono per l’esproprio delle proprietà creole e per l’affrancamento degli schiavi corrispondeva più o meno all’intero PIL di un anno dell’isola: il «New York Times» ha stimato il un articolo del 20 maggio 2022 in 560 milioni di dollari l’equivalente pagato da Haiti a Parigi, ma se si calcola il valore in grammi d’oro, al cambio attuale 150 milioni di franchi corrispondono a quattro miliardi di euro. In realtà comunque la somma fu ridotta a 90 milioni di franchi e alla fine la cifra versata fino al 1947, anno in cui il debito fu considerato estinto, assommò a 112 milioni di franchi-oro, considerando gli interessi calcolabili all’incirca in uno 0,2% l’anno (chi ha un mutuo può fare il raffronto).

Sebbene l’oramai ex perla dei Caraibi non fosse più il pozzo d’oro dell’età dello schiavismo, le rate del riscatto preteso da Parigi (circa 1,5 milioni di franchi l’anno) costituivano circa l’1% del PIL e pesavano all’incirca per il 10-20% del bilancio annuale sulle casse haitiane. Se si confronta la situazione haitiana con quella italiana attuale, gli interessi sul nostro debito pubblico costituiscono il 3,6% del PIL e assorbono quasi il 9% delle entrate fiscali. La narrativa, dunque, che farebbe ascendere a questi esborsi la situazione di sottosviluppo haitiana è alquanto stiracchiata. Considerando anche che Santo Domingo, dopo l’indipendenza, nonostante abbia traversato non esaltanti traversie, come l’indebitamento con le banche straniere, un’occupazione americana (1916-1924), la feroce dittatura di Rafael Trujillo (1930-1961) e altre amenità, ha comunque standard di vita e indici di sviluppo incomparabilmente migliori dell’altra metà dell’isola…

Il neo-colonialismo francese dunque inizia molto prima dell’invenzione del Franco CFA ossia la moneta imposta dai francesi alle ex colonie africane per tenere le loro economie in pugno. Ma attribuirgli tutte le colpe del sottosviluppo di Haiti è del tutto arbitrario e ideologico. Haiti, come la Rhodesia-Zimbabwe 170 anni dopo (Stato la cui vicenda ha molti punti in comune con l’isola caraibica), ha annientato la sua classe dirigente bianca ma non è stata in grado di sostituirla con una di colore. Secondo uno studio dei vietnamiti Thanh Su e Canh Nguyen, citato dal sito «Aporia», senza «capitale umano» non c’è ricchezza locale o aiuti esteri che valgano. Anzi, in base alle ricerche dei nigeriani Thompson Ayodele, Temba A. Nolutshungu e Charles K. Sunwabe, gli aiuti dall’estero peggiorano la situazione, se a gestirli ci sono elite e burocrazie incapaci e corrotte. Se dunque la commissione macronista concluderà (quod erat in votis…) che la Francia «deve dei risarcimenti» ad Haiti, potrà stabilire una cifra qualsiasi, tanto per la sfortunata ex perla dei Caraibi il problema sarà comunque quello di stabilire chi gestirà quei denari.

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