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La storia del generale Avitabile, il salernitano che domò gli afghani

Ecco l’introduzione di Eugenio Di Rienzo alla ristampa del volume di Julian James Cotton, Il Generale Avitabile per i tipi di D’Amico Editore.

di Eugenio Di Rienzo da Nuova Rivista Storica, luglio 2024

Nel primo quarantennio dell’Ottocento, l’Impero ottomano e quello indiano dell’etnia Sikh, l’Afghanistan della casa regnante Durrānī, la Persia della dinastia Qajar divennero il quadrilatero geopolitico sui cui si concentrarono le ambizioni di conquista e di egemonia di Inghilterra e Russia. Ma non della Francia che si ritirò dal Grande Gioco asiatico, già nel 1809, dopo aver tentato inutilmente di stringere un’alleanza con l’Impero iranico retto da Fath ʿAli Shah. Il passo indietro di Parigi lasciò campo libero a Londra per realizzare i suoi disegni di espansione oltre i confini dell’India britannica. Ma favorì anche San Pietroburgo che, il 10 febbraio 1828, al termine di una vittoriosa campagna militare della Russkaja imperatorskaja armija, anche in virtù delle doti di negoziatore del letterato-diplomatico Aleksandr Sergeevič Griboedov, riuscì a far siglare, il 10 febbraio 1828, al Principe ereditario del Trono del Pavone, Abbas Mirza, il Trattato di Turkmenchay, con il quale vaste aree del Caucaso meridionale, i Khanati di Erivan, Nakhichevan, Talysh, insieme ai distretti di  Ordubad e Mughan, entrarono a far parte dei domini dello Zar Nicola I, e dove si prefigurava un futuro protettorato de facto della Russia sulla Persia.

Julian James Cotton, “Il Generale Avitabile”, D’Amico Editore, pp. 130, € 13,00

Per parare queste minacce, Istanbul, Lahore, Teheran cercarono di reagire con la modernizzazione del loro apparato militare iniziata già prime delle guerre napoleoniche, attirando nei loro territori molti ufficiali europei: reduci della Grande Armée, francesi, soprattutto (come Jean-Francois Allard e Claude Auguste Court), ma anche nostri connazionali, provenienti dai ranghi degli eserciti del Regno di Italia di Eugenio di Beauharnais e del Regno di Napoli di Gioacchino Murat (Rubino Ventura e Paolo Avitabile), che non erano stati integrati o non avevano voluto integrarsi nel sistema militare degli Asburgo e dei Borbone. Insieme a loro volsero le spalle all’occidente, raggiungendo il Sublime Stato ottomano, veterani dell’Armia Księstwa Warszawskiego, l’armata del Ducato di Varsavia, eretto da Napoleone nel 1807, come Stato cliente dell’Empire français. E successivamente affluirono a Istanbul i cadetti polacchi dell’Accademia militare dell’Esercito imperiale russo, istituita dopo il 1815, nella già capitale del Regno di Stanislao Augusto Poniatowski, usciti sconfitti dalla rivolta insorta, il 28 novembre 1830, contro il dominio zarista, soffocata nel sangue, il 6 settembre dell’anno seguente, dalle truppe del Generale Ivan Fëdorovič Paskevič.

All’esodo delle «lance spezzate» di Bonaparte si unì, quello dei reduci irlandesi e inglesi della British Army, come Alexander Gardner e Henry Montgomery Lawrence, di avventurieri americani, francesi, spagnoli che nel Subcontinente indiano si arruolarono negli eserciti dei vari Rājā locali ma soprattutto fornirono un considerevole contributo per estendere i confini dell’Impero sikh. E infine offrirono la loro esperienza militare per potenziare la spinta aggressiva della corrotta e insaziabile Compagnia delle Indie orientali, longa manus del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda, e dei potenti cartelli commerciali e finanziari londinesi, intenzionati ad estendere il loro controllo sul Punjab, a imporre un protettorato sull’Afghanistan, arrivare alla sua conquista, o almeno «pacificare», con il ferro e col fuoco, le bellicose tribù di etnia pashtun operanti sul confine nord-occidentale di quello che sarebbe divenuto de iure, solo nel 1876, il British Raj.

I combattenti europei in Oriente, e tra essi soprattutto gli avviliti e degradati, nella loro posizione economica e sociale demi-solde, già compagni di gloria dell’Imperatore dei Francesi, magnificamente ritratti in alcuni racconti di Honoré de Balzac e di Joseph Conrad (Il colonnello ChabertI duellanti), non erano tuttavia solo semplici mercenari, ma rappresentavano i progenitori dei moderni Foreign Fighters. Per tutti loro infatti le motivazioni economiche che li portavano a sguainare la spada fuori della loro patria, e che sopravanzavano in larghissima misura ogni altro stimolo a battersi nei confini di un mondo tanto fascinoso quanto sconosciuto, si accompagnavano all’impulso di una rivolta ideale. Al desiderio, cioè, di sottrarsi, attraverso, il mestiere delle armi, alla soffocante atmosfera illiberale e conformistica della Restaurazione che si era sostituita alla stagione delle libertà politiche e civili e a uno stile di vita emancipato nel costume, nella mentalità, nella vita sessuale, inaugurati nel 1789 dalla Grande Rivoluzione.

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Come ha sostenuto, Edward Wadie Said, in un libro giustamente famoso, per gran parte dell’opinione pubblica europea sette-ottocentesca l’Oriente rappresentava il regno dell’ignoranza, del fanatismo, del dispotismo e di ogni disvalore, e il vero e proprio contraltare della civiltà occidentale. Per questi Transnational Soldiers (meno consapevoli ma più animosi e spregiudicati fratelli spirituali dei personaggi di Stendhal, Julien Sorel, Fabrizio del Dongo, Lucien Leuwen) si potrebbe dire, invece, con le parole di Alphonse de Lamartine che quel grande spazio costituiva «il miraggio di una terra dei prodigi, dove ogni cosa germina, e ogni uomo può diventare un eroe o un profeta».

Quella sterminata regione di delizie e meraviglie trasformò, però, i nuovi cavalieri di ventura in spregiudicati tagliagole che consideravano i popoli dell’Asia centrale e meridionale come etnie subumane, il cui sterminio era lecito e anzi giustificato per appesantire «il fardello dell’uomo bianco» (come recitava il titolo di una poesia di Kipling pubblicata nel 1899, alla conclusione di questa torbida epopea), di ricchezze e di quei beni essenziali o spesso voluttuari il cui valore sul mercato europeo, già dall’età di mezzo, corrispondeva al loro peso in oro. E in questo il comportamento di Paolo Avitabile non fu diverso da quello degli altri combattenti stranieri.

Lasciata Napoli, nell’aprile del 1817, dopo aver dato ampia prova del suo valore, durante l’assedio di Gaeta, prolungatosi dal maggio-agosto 1815 (dove Murat aveva tentato l’ultima resistenza), deluso perché i suoi atti di audacia non solo non gli fruttarono alcun avanzamento di carriera, ma anche per il suo trasferimento in un «Reggimento a mezza paga», Avitabile intraprese un lungo e fortunoso periplo del Mediterraneo, toccando Algeri, Tunisi, le Isole Baleari, che si concluse con un naufragio alla foce del Rodano. Tratto in salvo e ricoverato in un lazzaretto di Marsiglia, per l’obbligatorio periodo di quarantena, fece amicizia con Jacques Beraud, ex capitano della Garde impériale, che gli illustrò le opportunità che un giovane e intraprendente ufficiale avrebbe potuto trovare in Persia, dove Claude-Matthieu de Gardane, già inviato speciale di Bonaparte presso la Corte dello Shah, era stato da questi incaricato di reclutare ufficiali francesi e italiani. Sedotto da quelle parole, raggiunse Istanbul, il 12 maggio 1818, e dopo essersi abboccato con l’ambasciatore persiano, presentandogli le sue credenziali, firmò un contratto d’ingaggio di durata illimitata.

Avitabile, tuttavia, restò solo fino al 1824 al servizio di Fath ʿAli, dal quale ottenne il titolo di Khan, ricche regalie e le ambite onorificenze dei Due Leoni e della Corona, del Leone e del Sole per la pronta, zelante e disumana capacità di liquidare gli avversari del «Re dei re». Nel 1827 si arruolò, infatti, nelle armate dal Maharaja sikh Ranjit Singh, prima con il grado di Colonello comandante del Corpo di artiglieria, con la soprintendenza degli arsenali e delle fonderie, per poi essere nominato, nel 1829, Naib Nazim (Governatore generale) dell’inquieta provincia di Wazirabad, nel Punjab meridionale, agitata da endemici conflitti etnici e mai sottomessasi del tutto a Lahore. Fu, in quella regione, che Abu Tabela, ovvero «Papà Tabela», secondo la traslitterazione in lingua pashtun del cognome Avitabile, ricevette soprannome di «diavolo nero», dovuto alla sua selvaggia efferatezza, paragonabile a quella di Gengis Khan e Tamerlano. Di lui, nelle moschee di Peshawar, affidata al suo governo nel 1837, dove stroncò con massacri di massa un’ostinata rivolta fiscale, si continuò a pregare quotidianamente Allah, ancora molti anni dopo la sua partenza, di scongiurarne il ritorno, considerata la diffusa credenza di ritenerlo un demone immortale.

Il «Compassionevole» diede ascolto alle suppliche dei suoi fedeli, perché Avitabile, nel 1840, pur rimanendo nominalmente fedele alla dinastia Sikh, concesse stabilmente da quel momento le sue prestazioni alla Regina Vittoria, la futura Imperatrice dell’India. E nel 1842, durante il disastroso fallimento della spedizione militare inglese in Afghanistan che si concluse ai primi di gennaio con una caotica ritirata da Kabul e con la quasi totale distruzione del corpo di spedizione, soddisfece pienamente le aspettative del nuovo datore di lavoro. In quell’occasione, Abu Tabela si guadagnò l’incondizionata stima del Regno Unito, fornendo ai fuggitivi tutta l’assistenza necessaria, grazie alle sue indiscutibili competenze tattiche e al suo fine intuito politico ma, al contempo, diede ancora una volta libero sfogo a un’indomabile violenza che non conosceva né limiti né eccezioni.

Avitabile, infatti, allargò, grazie al contributo delle sue bande di masnadieri, il fiume di sangue che gli uomini della British Army si lasciarono alle loro spalle, lungo il cammino verso il Khyber Pass, massacrando la popolazione civile, facendo strage del bestiame, devastando le coltivazioni e bruciando villaggi che ancora ospitavano i loro abitanti. Impedì, forte di un’indubbia influenza tra i capi clan della North West Frontier, l’alleanza tra i Sikh e gli Afgani, divisi in tutto ma uniti nella ferrea volontà di scacciare gli infedeli dalla loro terra. E addirittura concesse un forte prestito alla Compagnia delle Indie orientali, promotrice e finanziatrice dell’infausta impresa, che la sconfitta nella prima guerra anglo-afghana aveva gettato in una grave crisi di liquidità. A patto che il suo patrimonio, pari a un milione di rupie, una volta restituito il credito, insieme agli alti interessi maturati, venisse depositato presso la Bank of England, in modo da poter conservare e poi trasferire a tempo debito in Europa, esentasse e al riparo da possibili rischi di sottrazione, gran parte delle ricchezze da lui accumulate col filo della sua sciabola.

Nel 1839, intanto, Ranjit Singh era morto e il suo successore, il debole e inetto Sher Singh, fu assassinato quattro anni dopo durante una congiura organizzata dall’aspirante al trono Ajit Singh Sandhawalia. Resosi conto di rischiare la stessa sorte, dopo la scomparsa del suo protettore, Abu Tabela decise allora di lasciare il suo incarico. E, preso congedo dalle concubine del suo affollato harem, ritornò nel Vecchio Continente. Dopo una breve sosta a Parigi e Londra, città nelle quali ricevette onori e riconoscimenti, ottenendo addirittura il privilegio di essere ricevuto in udienza privata da Luigi Filippo e dal Duca di Wellington, il 18 febbraio 1844, rientrò a Napoli. Ma presto se ne allontanò. Per rinchiudersi nel pretenzioso buen retiro edificato nel suo paese natale, Agerola, grazie al pingue bottino accumulato nel corso di un tempestoso trentennio. Il volontario esilio fu provocato, a suo dire, dall’insofferenza per l’atmosfera bigotta e superstiziosa che dominava la capitale del Regno delle Due Sicilie, insopportabile per un uomo che aveva a lungo assaporato i piaceri dell’hashish afghano, dall’aroma intenso e speziato, e le trasgressioni erotiche dell’Oriente. Ma più probabilmente ebbe come causa la cattiva accoglienza ricevuta dalla corte di Ferdinando II, per nulla disposta a riconoscere i suoi meriti di macellaio prezzolato.

Poco si è scritto sull’indomito Foreign Fighter, nato, il 5 ottobre 1791, nel borgo arrampicato sui Monti Lattari, limitrofo alla Costiera amalfitana, e lì deceduto, il 28 marzo 1850, e quasi sempre in lavori che nulla avevano a che fare con una corretta ricostruzione storiografica. Se si eccettua il volume di Julian James Cotton, edito a Calcutta nel 1905, che viene qui di seguito pubblicato nell’ormai introvabile traduzione italiana, curata da Vittorio Spinazzola, tempestivamente pubblicata a Napoli solo un anno dopo.

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