Dov’è finito re Vittorio? Chi l’ha visto? Dei quattro Supereroi del Risorgimento, alla vigilia delle celebrazioni per il 150° dell’Unità d’Italia, si parla solo di Cavour e un po’ di Garibaldi. Lasciamo perdere Mazzini, l’eterno perdente, il grafomane che porta in giro quella faccia con un altissimo tasso di mortalità. Ma Vittorio Emanuele II, così simpatico, vitalistico, sanguigno, timido e spaccone, allergico all’etichetta di corte, così simile per tanti versi a noi italiani, perché è ignorato? Ci vergogniamo di lui per via del fatto che si tingeva i capelli? Non è mica l’unico a farlo, fra i capi di Stato e di governo. Forse perché la sua discendenza è impresentabile? Non è colpa sua. Per le cosiddette ragioni dinastiche, Vittorio deve sposare una cugina prima; suo figlio Umberto idem e di conseguenza si passa nell’arco di tre generazioni dai due metri e quattro centimetri di altezza di Carlo Alberto a quel ragnetto complessato di Vittorio Emanuele III. A farci prediligere re Vittorio sarebbe sufficiente l’episodio che precede la sua visita di Stato in Gran Bretagna dopo la vittoriosa guerra di Crimea.
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Bruno Gambarotta da “La Stampa” del 6 luglio 2010
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Immaginiamoci la scena: Cavour e Massimo d’Azeglio nell’appartamento privato del re, armati di forbici e doppio decimetro, che lo costringono a tagliare almeno dieci centimetri di quei meravigliosi baffi a manubrio che gli arredavano il viso, allo scopo di «non spaventare la regina Vittoria!»
Nei suoi 29 anni di regno (dal 1849 al 1878) il re si trovò ad affrontare cinque guerre e nelle prime quattro combatté personalmente. Al generale Möhring, inviato di Francesco Giuseppe, confidò, dopo la disastrosa campagna del 1866: «La sola cosa che mi dà veramente piacere è di fare la guerra». La più grande virtù di Vittorio Emanuele è stata il coraggio. Fin dal suo esordio come re di Sardegna: suo padre Carlo Alberto, sconfitto a Novara nel 1849, con un colpo di testa abdica e se ne parte per l’esilio, lasciando la corona a questo ventinovenne che nessuno ha preparato ai suoi compiti. Forse spera che il maresciallo Radetzky, nell’imporre i termini dell’armistizio, avrà un occhio di riguardo per Vittorio, dal momento che è stato suo padrino di battesimo e testimone di nozze. Insieme a Massimo d’Azeglio Presidente del Consiglio, il Re negozia il trattato di pace ma il Parlamento lo respinge; senza indugi, con il Proclama di Moncalieri, scioglie la Camera e indice nuove elezioni e siccome la città di Genova si ribella perché vuole continuare la guerra, ordina che venga bombardata dal mare. Sul capo di Sua Maestà, cattolico praticante, cadono nell’arco di 20 anni (1850-1870) ben tre scomuniche da parte di Pio IX e lui le lascia scivolare via, convinto che la Storia gli darà ragione. Sono originate dalle leggi Siccardi che nel 1850 soppressero i tribunali ecclesiastici, dalla legge del 1855 che sciolse le corporazioni legate alla Chiesa incamerando i beni nel demanio e dalla presa di Roma nel 1870. Nel giro di poche settimane gli morirono la madre, la moglie, il fratello e il figlio minore. I clericali misero in giro la voce che si trattava della vendetta divina, propiziata forse da una maledizione lanciata da don Bosco, ma il Re tirò avanti per la sua strada.
È stato l’unico sovrano italiano a non abrogare lo Statuto concesso da suo padre nel 1848, giunto intatto al passaggio del testimone cento anni dopo con la Costituzione dell’Italia repubblicana. (Ho conosciuto un Presidente del Consiglio che ogni mattina, appena sveglio, per prima cosa pensava a come cambiare la nostra Carta). Per quasi tutta la durata del suo regno ebbe a che fare con dei presidenti del consiglio tosti e affatto malleabili, a cominciare da Cavour che, alla vigilia della guerra del 1849, cumulò i dicasteri degli esteri, degli interni, della marina e della guerra (quello delle infrastrutture non esisteva ancora). Poiché Vittorio, ansioso di combattere, parlava della guerra imminente mentre gli impegni presi con Napoleone III dovevano restare segreti, Cavour tranquillizzò gli austriaci dicendo: «da dieci anni, ogni inverno, il re ripete sempre la stessa cosa, ciò non significa nulla, è una sua idea fissa». (Ho conosciuto un ministro che ogni anno, dal palco di Pontida, minacciava sfracelli e i suoi alleati usavano le stesse parole di Cavour). In un’altra occasione, il re venne tenuto all’oscuro delle trattative per la convenzione di Parigi del settembre 1864, siglata da Minghetti per il trasferimento della capitale da Torino a Firenze, che lui non avrebbe mai approvato, perché odiava allontanarsi da Torino. Visitando l’Italia del Sud, non voleva che i sudditi gli baciassero le mani e quando a Palermo staccarono i cavalli dalla sua carrozza, preferì proseguire a piedi dicendo: «Non sono un cantante o una ballerina».
La sua passione per le donne è un argomento che ha alimentato una messe impressionante di aneddoti veri o inventati. Al termine della visita in Gran Bretagna gli chiesero cosa gli fosse piaciuto di più e lui rispose: «miss Flora Macdonald, damigella della regina». La corte e i suoi ministri avrebbero voluto risposarlo con un gentildonna di sangue reale ma lui tenne duro nel suo amore per Rosa Vercellana, la figlia del tambur maggiore del reggimento, conosciuta quando era una prosperosa ragazza di quindici anni, fino ad arrivare alle nozze morganatiche. Alla notizia della sua morte, avvenuta nel gennaio 1878 quando ancora non aveva compiuto 58 anni, la regina Vittoria scrisse nel suo diario, citato da Denis Mack Smith: «Era uno strano uomo, sregolato, e spesso sfrenato nelle sue passioni (specialmente per le donne), ma un coraggioso, prode soldato, con un cuore generoso, onesto, e con molta energia e grande forza».
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Inserito su www.storiainrete.com il 1 agosto 2010